di Marisa Vescovo
Per Pace una delle possibili realtà del quadro è la materia, che gli permette attraverso l’analisi del mezzo specifico, di ritrovare uno spazio di ricostruzione immaginativa di un linguaggio in via di “farsi” al di là di ogni possibile figurazione. Le carte assorbenti, i legni, i supporti laccati, che non hanno nulla a che fare con la proposta dei materiali d’urto o collages dei Dada, si pongono in contraddizione con se stessi, con le proprie qualità fisiche, come tendendo alla propria abolizione all’interno del quadro. La materia cromatica densa o vischiosa, o annientata dagli acidi, che si estende sulle superfici in filamenti che si muovono con la cautela di sottili zampe di ragno, si assottiglia e si apre, per lasciare fuoriuscire non un’antipittura, i cui risultati sarebbero scontati in partenza, ma il complesso otticamente impreciso ed indistinto del quadro in fieri, nel quale incomincia ad affiorare un’ossatura inanellata che agisce come spazio di penetrazione in continua riproduzione. Pace cerca dunque zone operative autonome – pur tenendo conto di una situazione ormai storicizzata – in cui tende a far crescere una “scrittura” o un “segno-macchia” intenzionato come itinerario psicologico e come superamento e di tecniche abusate e accademizzate, che escludono un autentico rapporto di contatto e di verifica col mondo.