di Marisa Vescovo
L’Informale si è avventato nell’azione con un profondo bisogno di contemplazione, più che di ragione, senza trovare una dialettica tra i due estremi, ma piuttosto riconoscendovi una disperata antinomia, ricomponibile, a prima vista, in un esito non dichiarato, che lascia in sospese le sue conclusioni. Carlo Pace si insinua in questa sospensione, in questa ambiguità di esiti divergenti, portando avanti la sua ricerca solitaria, assorta, di un suo segno oggettuale – i quadri che esibiscono una propria “spina dorsale”, intesa come scansione, lineamento, traiettoria, centro attorno al quale si costituisce il corpo della pittura (si pensi a “Madre Terra, 2003), ma pure affioramento dell’impulso allo stadio del cosciente – col quale, in seguito, cerca gli esiti più raggiunti dell “action painting” americana.
Sappiamo bene che la pittura che viene postulata come sintesi di un’azione è sempre inseparabilmente legata alla “biografia” dell’artista. Il quadro stesso è un “momento” del singolare miscuglio che è la sua vita, una gioia e un dramma che vengono chiaramente tradotti nella lingua dei segni e della croma. Nel caso di Carlo pace è molto importante, anzi vitale, il materiale ruvido, cristallino, una sorta di carta vetro molto granulosa – l’artista per lavorare a bisogna della resistenza del fondo – su cui si riversa la fiammante esplosione del colore che penetra tra gli interstizi della superficie – anche Pollock gettava sabbia e cocci di vetro sulla superficie – ottenendo un effetto quasi “divisionista”.
Se si guarda un lavoro come “Quadro possibile” (2008) il segno veloce diventa infinitamente ripetibile e forma un tessuto ora più fitto, ora più rado, disegni labirintici, come il tracciato viario di una metropoli vista dall’alto: ogni segno fissa un punto dello spazio e nel tempo, trascrive un “altro” istante dell’esistenza, entra all’interno dell’inconscio, che è la gran riserva delle forze vitali, a cui soltanto con l’arte si attinge. Non è dalla dimensione delle memorie cancellate, ma è dal mare profondo dell’essere, che provengono le spinte ad agire.
Un quadro come “Carta vetro” (2008), tenuto sui toni di un bianco ghiacciato e di un giallo molto mediterraneo, dove il pennello si disperde in una sorta di procedimento centrifugo e dissociativo, genera un sentimento, anche tenero, di dolorante dolcezza, quando il segno si fa abbandonato e come errabondo. Un dipinto quasi gioioso, dove il segno danzante può nutrirsi di una toccata realtà personale. La tela meno invasa delle altre dal groviglio dei segni, gioca su un vuoto che, piano piano, si riempie di primordiali energie, di lievitante materia.
“Il sogno realizzato” (2008), ci dice che segno e colore sono i tramiti di un rapporto che si istituisce tra la vita dell’artista e la vita della materia, e questa vita affiora e circola come una linfa, che corre in ogni direzione come mercurio.
Nell’intreccio di divisione movimento, l’azione di Pace sulla tela diventa pittura del disastro, che trasforma la materia in un corpo incandescente. Lo spazio ubiquitario – dove il segno converge sempre verso un centro pulsante- attrae l’occhio incarnando una percezione anteriore ad ogni intellettualistica distinzione tra soggetto e oggetto, creando anche una continuità danzante legata ad un flusso spazio – temporale indiviso – che deve molto alla tecnica automatica del Surrealismo – infatti la pittura indica che essa non vuole innescare alcuna gerarchia tra un margine periferico e il centro focale dell’immagine.
In altri quadri, sempre tenuti sul registro di superficie granigliato, il metro si allarga ad una dimensione cosmica, con leggere accensioni della cromia elettrizzata dal bianco saettante, mentre il gesto, con un raptus fulmineo, attanaglia col nero l’intera estensione del quadro.
Pace non progetta il quadro, ma prevede un suo modo di comportamento: sarà che non può mettersi semplicemente davanti alla tela, ma la dipinge ponendo fine a guardarla da ogni lato, per essere”dentro” la pittura che sta facendo, sa anche che il ritmo del segno del del colore, man mano lo eccitano, e lo costringono a un movimento sempre più rapido della mano, così come il tempo della danza pervade il danzatore dominandolo totalmente.
L’artista, nei suoi grovigli arrovellati di segni, cerca di imprigionare tutto ciò che in lui è movimento: la vibrazione della luce che genera un fremito nella materia porosa e iridescente, ma anche i confusi, ansiosi, itinerari della gente nel labirinto della città contemporanea. Pace sa bene che la meditazione dell’artista sull’arte, è, in pari tempo, una meditazione su se stesso, sul proprio gusto, sui propri interessi intellettuali, sui concetti sociali, sui simboli che lo spronano. Fonte di creazioni significative, in quest’epoca di autocoscienza storica, è la duplice meditazione dell’autore sul proprio bagaglio artistico ed estetico, e sulla propria capacità di assimilare tale retaggio.