Le ricerche di Carlo Pace di Carlo Pesce (2006)

In occasione della mostra che fino al 23 febbraio sarà ospitata nelle sale della Galleria “La Cittadella”, abbiamo incontrato Carlo pace, artista schivo, eternamente accompagnato dai suoi pacchetti di sigarette, fondamentale per quella svolta informale data alla cultura pittorica alessandrina.

Lo studio di Carlo Pace trabocca di opere, si coglie immediatamente il percorso di un artista completo, unico, originale nel modo di fare arte, “un modo – come rilevato da Dino Molinari – completamente estraneo agli schemi della cultura figurativa in Alessandria a partire secondo dopoguerra“.

RicercaPaceI miei inizi – dice Carlo Pace – risalgono a quando ero poco più che un adolescente. A casa mia giravano molte opere – il padre Luigi era assai conosciuto non solo in città come collezionista di opere d’arte contemporanea, con una quadreria che spaziava da Bozzetti, Morando e Cafassi a Fillia, Cassinari, Fontana – ed era costante la presenza di galleristi, degli stessi artisti, di critici, di editori come Giampiero Giani. Costui era legato all’informale, soprattutto allo Spazialismo, un movimento che, come diceva Lucio Fontana, aveva colore, l’elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo e il movimento, che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Nel 1952-53 iniziai a realizzare le prime opere, tutte senza ricorrere all’immagine, tutto non figurativo. Fu un momento rivoluzionario nel panorama alessandrino. Il lavorare con la materia fu un discorso molto avanzato, ricco. Questo lavoro si protrasse un decennio. Fu un momento intenso”, continua artista, “che si concluse nel 1962. È inutile cercare di stiracchiare le date: L’informale finisce proprio in quegli anni. La mostra di Modena (informale: Jean Dubuffet in arte europea dal 1945 al 1970, attualmente in corso nella città emiliana) propone anche opere che appartengono al 1970: Direi che in quel momento il movimento aveva già esaurito la sua spinta innovativa”.

Molti artisti però hanno proseguito sull’informale. C’è qualcuno che segna il limite estremo?

Lucio Fontana ha chiuso un’epoca. Il suo è stato un lavoro talmente nuovo, talmente rivoluzionario che ha fatto cessare qualsiasi attività novità pittorica: Fontana è inimitabile, Avvicinarsi a lui significherebbe copiare, senza alcuna giustificazione”

Quindi nessuna possibilità per l’arte contemporanea?

“La novità può essere nei materiali, nel cercare qualcosa che permette di scandagliare la natura attraverso la riproduzione di nuovi spazi, ma con nuove sostanze”

Dopo l’informale, cosa accadde alla produzione di Carlo pace?

“Dopo la ricerca informale ho avuto un periodo nel quale rappresentavo delle figure femminili, molto stilizzate. Si trattava di una parentesi sulla quale rifletto e vorrei riflettere ancora. Mi piacerebbe fare una mostra solo con questi pezzi. Negli anni 70 avviene l’ennesima svolta. Feci una mostra a Como e parlai a lungo con un critico, Mario Radice, il quale mi fece riflettere sulla ripetitività. Non so quali furono gli stimoli, che cosa si verificò, ma sentii che in quel momento dovevo usare molto nero. Il quadro diventava scuro, si piegava, si “ammalava”. Nacquero le”spine dorsali”, nere, sporche, dei simboli di torture, di una malattia del mondo.”

È forse il momento in cui Carlo pace dimostra la potenza della sua creatività. La novità è palese, eccezionale. Sembra che le spine dorsali rimangono anche dopo, riducendosi, evolvendosi in qualcosa d’altro. Segue, negli anni 80, un altro periodo intenso, minimale, condizionato dai cosiddetti Fonemi. Dietro questa produzione si nasconde una sensibilità straordinaria, una capacità di recepire lo spirito di ciò che ci circonda. I Fonemi sono il grido impercettibile del debole, della natura che non ha la possibilità di competere con il potente.

Concludiamo con l’ultima fase, quella ben rappresentata alla Cittadella

“L’ultima produzione è ancora incentrata sulla ricerca. Dopo essere ritornato al colore e alla sua forza, ho cominciato a lavorare con dei fili che si trasformano in segni e in forme. Tutto è iniziato dopo la mostra istituzionale antologica dell’Assessorato alla Cultura di Alessandria del 2003. Dopo mezzo secolo di produzione, mi sento ancora di sperimentare e di ricercare”.

Dal catalogo della mostra “Carlo Pace” – Il Cortile, Bologna, 1976 di Marisa Vescovo

di Marisa Vescovo

catalogocortile

Carlo Pace da qualche tempo tende, attraverso la genesi del proprio lavoro, ad interrogarsi continuamente sul senso dell’operare artistico all’interno di una società in piena crisi di valori etici e sociali. Se fino a ieri abbiamo parlato, a proposito di Pace, di ‘quadro malato’ e inteso come non-senso in un contesto storico in cui dall’arte si pretende soprattutto gratificazione – e di qui la matrice delle piaghe allarmanti dei legni segnati da incandescenti cicatrici lasciate da un fuoco esistenziale senza requie – oggi individuiamo invece un rapporto positivo/negativo, che si stabilisce tra l’oggetto-quado e l’artista, che conduce verso una prospettiva diversa del discorso.IL CORTILE BO

Il senso di disagio e di malessere che generano questi materiali, da reliquia corrosa e sottratta al nulla, si integra, con relativa facilità, alla presa di coscienza dell’inutilità e della falsificazione ideologica che è insita nell’abitudine di considerare l’arte solo nella sua funzione sacra ed essenziale di prodotto estetico, contro una drammatica situazione di depauperamento morale e fisico dell’uomo moderno travolto e atomizzato dalla tecnologia. Questi quadri trovano ora la loro ragione di essere nel gioco astratto del pensiero che li costituisce, che nega perentoriamente l’autobiografismo, legato a una tradizione preminentemente lirica, per privilegiare l’autogenerazione di forme primigenie e consistentemente presenti per la loro ‘ambiguità’, ma soprattutto per la loro ricca potenzialità di significati ‘altri’ che si materializzano in un’acre interrogazione delle cose calcificata sul vuoto del mondo.

L’obiettivo di Pace non è di presentare conclusioni su un problema irto di spine come quello dell’arte-sì e dell’arte-no, ma se mai quello di indicare un comportamento di ricerca e di individuazione di mezzi espressivi, che pur lasciando inevitabilmente irrisolte una serie di indicazioni di pensiero, diano però le coordinate del come e del perché un artista deve procedere nel suo percorso creativo. Per Pace una delle possibili realtà del quadro è la materia, che gli permette attraverso l’analisi del mezzo specifico, di ritrovare uno spazio di ricostruzione immaginativa di un linguaggio in via di ‘farsi’ al di là di ogni possibile figurazione.

Marisa Vescovo

Carlo Pace, l’avventura del gesto

di Marisa Vescovo

pacevescovoL’Informale si è avventato nell’azione con un profondo bisogno di contemplazione, più che di ragione, senza trovare una dialettica tra i due estremi, ma piuttosto riconoscendovi una disperata antinomia, ricomponibile, a prima vista, in un esito non dichiarato, che lascia in sospese le sue conclusioni. Carlo Pace si insinua in questa sospensione, in questa ambiguità di esiti  divergenti, portando avanti la sua ricerca solitaria, assorta, di un suo segno oggettuale – i quadri che esibiscono una propria “spina dorsale”, intesa come scansione, lineamento, traiettoria, centro attorno al quale si costituisce il corpo della pittura (si pensi a “Madre Terra, 2003), ma pure affioramento dell’impulso allo stadio del cosciente – col quale, in seguito, cerca gli esiti più raggiunti dell “action painting” americana.

Sappiamo bene che la pittura che viene postulata come sintesi di un’azione è sempre inseparabilmente legata alla “biografia” dell’artista. Il quadro stesso è un “momento” del singolare miscuglio che è la sua vita, una gioia e un dramma che vengono chiaramente tradotti nella lingua dei segni e della croma. Nel caso di Carlo pace è molto importante, anzi vitale, il materiale ruvido, cristallino, una sorta di carta vetro molto granulosa – l’artista per lavorare a bisogna della resistenza del fondo – su cui si riversa la fiammante esplosione del colore che penetra tra gli interstizi della superficie – anche Pollock gettava sabbia e cocci di vetro sulla superficie – ottenendo un effetto quasi “divisionista”.

Se si guarda un lavoro come “Quadro possibile” (2008) il segno veloce diventa infinitamente ripetibile e forma un tessuto ora più fitto, ora più rado, disegni labirintici, come il tracciato viario di una metropoli vista dall’alto: ogni segno fissa un punto dello spazio e nel tempo, trascrive un “altro” istante dell’esistenza, entra all’interno dell’inconscio, che è la gran riserva delle forze vitali, a cui soltanto con l’arte si attinge. Non è dalla dimensione delle memorie cancellate, ma è dal mare profondo dell’essere, che provengono le spinte ad agire.

Un quadro come “Carta vetro” (2008), tenuto sui toni di un bianco ghiacciato e di un giallo molto mediterraneo, dove il pennello si disperde in una sorta di procedimento centrifugo e dissociativo, genera un sentimento, anche tenero, di dolorante dolcezza, quando il segno si fa abbandonato e come errabondo. Un dipinto quasi gioioso, dove il segno danzante può nutrirsi di una toccata realtà personale. La tela meno invasa delle altre dal groviglio dei segni, gioca su un vuoto che, piano piano, si riempie di primordiali energie, di lievitante materia.

“Il sogno realizzato” (2008), ci dice che segno e colore sono i tramiti di un rapporto che si istituisce tra la vita dell’artista e la vita della materia, e questa vita affiora e circola come una linfa, che corre in ogni direzione come mercurio.

Nell’intreccio di divisione movimento, l’azione di Pace sulla tela diventa pittura del disastro, che trasforma la materia in un corpo incandescente. Lo spazio ubiquitario – dove il segno converge sempre verso un centro pulsante- attrae l’occhio incarnando una percezione anteriore ad ogni intellettualistica distinzione tra soggetto e oggetto, creando ancatalogoche una continuità danzante legata ad un flusso spazio – temporale indiviso – che deve molto alla tecnica automatica del Surrealismo – infatti la pittura indica che essa non vuole innescare alcuna gerarchia tra un margine periferico e il centro focale dell’immagine.

In altri quadri, sempre tenuti sul registro di superficie granigliato, il metro si allarga ad una dimensione cosmica, con leggere accensioni della cromia elettrizzata dal bianco saettante, mentre il gesto, con un raptus fulmineo, attanaglia col nero l’intera estensione del quadro.

Pace non progetta il quadro, ma prevede un suo modo di comportamento: sarà che non può mettersi semplicemente davanti alla tela,  ma la dipinge ponendo fine a guardarla da ogni lato, per essere”dentro” la pittura che sta facendo, sa anche che il ritmo del segno del del colore, man mano lo eccitano, e lo costringono a un movimento sempre più rapido della mano, così come il tempo della danza pervade il danzatore dominandolo totalmente.

L’artista, nei suoi grovigli arrovellati  di segni, cerca di imprigionare tutto ciò che in lui è movimento: la vibrazione della luce che genera un fremito nella materia porosa e iridescente, ma anche i confusi, ansiosi, itinerari della gente nel labirinto della città contemporanea. Pace sa bene che la meditazione dell’artista sull’arte, è, in pari tempo, una meditazione su se stesso, sul proprio gusto, sui propri interessi intellettuali, sui concetti sociali, sui simboli che lo spronano. Fonte di creazioni significative, in quest’epoca di autocoscienza storica, è la duplice meditazione dell’autore sul proprio bagaglio artistico ed estetico, e sulla propria capacità di assimilare tale retaggio.

Dal catalogo della mostra “Situazioni d’Arte oggi in Provincia” patrocinata dal Comune di Alessandria 1976

marisavescovo
di Marisa Vescovo

Per Pace una delle possibili realtà del quadro è la materia, che gli permette attraverso l’analisi del mezzo specifico, di ritrovare uno spazio di ricostruzione immaginativa di un linguaggio in via di “farsi” al di là di ogni possibile figurazione. Le carte assorbenti, i legni, i supporti laccati, che non hanno nulla a che fare con la proposta dei materiali d’urto o collages dei Dada, si pongono in contraddizione con se stessi, con le proprie qualità fisiche, come tendendo alla propria abolizione all’interno del quadro. La materia cromatica densa o vischiosa, o annientata dagli acidi, che si estende sulle superfici in filamenti che si muovono con la cautela di sottili zampe di ragno, si assottiglia e si apre, per lasciare fuoriuscire non un’antipittura, i cui risultati sarebbero scontati in partenza, ma il complesso otticamente impreciso ed indistinto del quadro in fieri, nel quale incomincia ad affiorare un’ossatura inanellata che agisce come spazio di penetrazione in continua riproduzione. Pace cerca dunque zone operative autonome – pur tenendo conto di una situazione ormai storicizzata – in cui tende a far crescere una “scrittura” o un “segno-macchia” intenzionato come itinerario psicologico e come superamento e di tecniche abusate e accademizzate, che escludono un autentico rapporto di contatto e di verifica col mondo.

Marisa Vescovo

La poetica del segno

Migliaia di opere per riscoprire un artista controcorrente, che ha pagato con l’esclusione dai grandi circuiti espositivi la propria coerenza e refrattarietà alle regole della civiltà dello spettacolo. La sistemazione dell’archivio di Carlo Pace ci permetterà di apprezzare nella loro pienezza le ricerche di un  maestro che, nelle sue continue sperimentazioni, ha vissuto con una propria originalità i percorsi culturali della seconda metà del Novecento.

Il punto di partenza è la grande rivoluzione dell’Informale che negli anni Cinquanta investe l’Europa. Carlo Pace non solo è giovanissimo quando abbraccia la grande novità di un movimento che sta trasformando completamente la scena artistica ma è anche il primo a introdurla ad Alessandria, svolgendo quindi un ruolo di rottura nel contesto locale. Non poteva avere  nessun riferimento in un ambito cittadino saldamente legato al figurativo, ma era cresciuto in un ambiente particolare grazie al padre Luigi, importante collezionista,  che aveva frequenti contatti con galleristi, editori e critici particolarmente legati allo spazialismo e a grandi artisti come Lucio Fontana. Questo spiega non solo una scelta che non aveva riferimenti nella cultura locale ma anche la precocità di Carletto che realizza le prime opere nel 1952, quando ha solo 15-16 anni. Vive questa fondamentale stagione in tutti i suoi percorsi, partendo dallo spazialismo di Fontana e  dal nuclearismo per arrivare a quella nuova idea della materia e del segno che saranno propri della  poetica informale, in Italia teorizzata da Francesco Arcangeli.  Pace per tutto il decennio rimane l’unico artista alessandrino che si inserisce in questo grande momento rivoluzionario. In città altri riferimenti per una pittura non figurativa si hanno solo nell’edizione del 1957 del Premio Città di Alessandria, che vede la partecipazione di maestri come Berti, Nativi, Bendini, Raspi, Accardi, San Filippo, Parzini e Dorazio, che conquista  anche il primo premio, sia pure insieme ad Aligi Sassu.

Negli anni Sessanta l’Informale entra in crisi e Pace, avvertendo l’impasse di questa esperienza, cerca nuove vie, ponendo l’accento più sulla pittura che sull’elemento materico in sé. Il suo personale cammino verso il recupero della figura si concretizza con una serie di composizioni a carattere totemico che rappresentano sempre inquietanti personaggi asessuati. È un evoluzione che richiama il cubismo e il post cubismo, in cui emerge un tratto ricorrente in Carletto di denuncia sociale e contemporaneamente di disagio personale. Queste figure senza genere, senza braccia e occhi sono immagini di un disagio, in cui è difficile separare il malessere dell’uomo Pace da quello più generale di una civiltà considerata alienata e priva di autenticità. Questa tendenza critica è uno dei fili rossi che caratterizzano tutto il suo percorso, al di là dei diversi indirizzi che prenderanno le sue ricerche.

Gli anni Settanta vedono Pace approfondire il dada storico, il neo-dada, la pop art e soprattutto l’arte povera, nello spirito del concettualismo. Utilizza vari materiali di recupero, dalle scatole di imballo al cartone ondulato, dal metallo al legno. Il confronto è in parte sempre con l’antico maestro, Lucio Fontana. Se questi con il suo famoso gesto aveva cercato la tridimensionalità,  distruggendo il  piano del quadro, ora si tratta di trovare una dimensione operativa nuova. Pace cerca di uscire dal rettangolo della  gabbia dentro la cornice per andare a lavorare direttamente sulla materia, che diventa il vero e unico soggetto dello spazio. Tra i materiali da sempre più amati figura sicuramente la carta,  intesa in tutti i modi possibile: carte assorbenti, spartiti musicali, rotoli di carte policrome, carta vetrata. Questo aspetto è presente addirittura nella sua infanzia, come  spiega nelle note autobiografiche, quando nella cartoleria della famiglia, davanti a un foglio di carta non poteva resistere alla tentazione di disegnare, di tracciare un segno. E qui si trova un  altro filo rosso di tutta la produzione di Pace, che attraversa ogni fase del suo percorso. Il suo segno è un qualcosa di inconfondibile e immediatamente riconoscibile, che attesta la personalità e originalità del lungo percorso delle sue ricerche.

Nascono in questo periodo le formelle. Si tratta di piccole tavole di legno quadrate che Pace incide nella zona centrale con delle sgorbie, riempiendole con pigmenti in modo da creare uno spazio liquido dai contorni irregolari. Le superfici vengono grattate con un foglio di carta vetrata, realizzando un effetto atmosferico di erosione.

Ma le opere più importanti degli anni Settanta sono sicuramente le spine dorsali, che segneranno fortemente il percorso artistico di Pace, riemergendo ancora dopo molti anni nelle trasformazioni generate da una ricerca destinata a concludersi solo con la sua scomparsa. In questo periodo si presentano come dolorosi reperti archeologici che escono da un fondo nero che vuole riflettere un’epoca priva di luce e di speranze, regno della sopraffazione e della violenza. Sono un simbolo di violenza antica e moderna, richiamano torture che arrivano dalle profondità della storia ma il cui orrore è ancora ben presente. Pace, utilizzando veramente ogni tipo di materiale, avvia una ricerca dai mille rivoli. Molto tempo dopo,  all’inizio del nuovo millennio, le spine dorsali ritornano con la serie delle tessiture. In questo caso solcano uno spazio  decisamente più luminoso, cercando di ricucire i fili della memoria e di una ricerca mai finita. Si passa in altre parole dal momento della rabbia e della denuncia a quello della riflessione di tutto un percorso. Proprio partendo dai suoi lavori forse più importanti, Pace cerca di ripensare le ragioni del suo fare arte e delle vie seguite.  Non a caso nelle mostre del 2005 nella galleria ‘La Cittadella’ e nella libreria Mondadori di Alessandria, vorrà mettere a confronto le spine dorsali degli anni Settanta con le nuove tessiture,  stabilendo così in modo chiaro ed evidente un legame tra le opere di anni prima e le più recenti che vogliono recuperare e aggiornare quell’esperienza. Successivamente, anche quando la ricerca lo porta su altri temi, le spine dorsali riemergeranno, come un fiume carsico che  può riaffiorare in ogni momento. Così anche nella successiva serie delle carte vetro con smalto è possibile trovare delle nuove interpretazioni di questo filone, destinato a rimanere  fino alla fine uno dei punti più alti della poetica dell’artista alessandrino.

Accanto alle spine dorsali, l’altra produzione più importante di Pace sono i fonemi, che caratterizzano la sua attività negli anni Ottanta. Si tratta dell’approdo più significativo di quella  attenzione al segno che si è già visto essere uno dei tratti distintivi di tutto il suo percorso artistico. I fonemi nella lingua italiana sono l’unità minima distintiva del suono,  per Pace diventano un grafismo che intende diventare musicalità attraverso un linguaggio essenziale ma allo stesso tempo lirico. Questa svolta va letta anche alla luce dell’amicizia con Rocco Borella che con i suoi cromemi cercava  una sensazione originaria che i colori e le loro figure sono in grado di evocare. Il limite dell’essenzialità viene raggiunto da Pace con i fonemi più segnici, realizzati su fondo bianco, che trasmettono una esigenza fortissima di comunicazione e sembrano richiamare gli spartiti della musica elettronica. Altri, invece, sono a tessera cromatica, presentandosi più lirici e pittorici. In questo incontro tra suono e segno, Pace cerca di definire un linguaggio universale, capace di superare ogni barriera comunicativa in virtù di una primordiale e originale espressività poetica.  Questa preminenza di una lirica grafico gestuale trova conferma anche nelle tante incisioni realizzate negli ultimi due decenni del Novecento, molte delle quali vengono dipinte e trasformate in pezzi unici.

Altro aspetto che riemerge in modo costante in Pace è il legame con la poetica dell’Informale. È stato il primo a portarla ad Alessandria e ad essa comunque rimarrà in qualche modo sempre legato. Riaffiora in modo prepotente con il ritorno alla pittura degli anni Novanta: colori, materia e segno delineano forme in fieri, in cerca di una qualche aggregazione. Un tratto distintivo, in questa nuova ricerca, è quell’eleganza aristocratica del tratto che sempre accompagna Pace in ogni sua svolta. L’Informale è forma espressiva attraverso la quale l’artista alessandrino trova quella libertà indispensabile per esprimere la propria vena lirica, il suo desiderio di libertà,  inquietudini  e denunce sociali. In questo quadro va inserita anche la fase nei primi anni del Duemila in cui realizza polittici composti da grandi tele verticali in cui colature e  segni animano le superfici cromatiche. Sono opere potenzialmente infinite, a cui è sempre possibile aggiungere nuove parti, in quella ricerca di libertà che è assolutamente insopprimibile in Pace. Ancora una volta, vengono rifiutati i limiti della tradizionale cornice, riprendendo un discorso che anch’esso riaffiora periodicamente nella sua ricerca.

Pace, quindi, non abbandona mai del tutto le proprie esperienze ma tende a recuperarle in un ambito diverso. È il caso della carta vetrata, che dal 2006 viene riproposta come nuova pelle dello spazio pittorico, capace di riecheggiare con la sua ruvidezza l’amarezza di un disagio esistenziale che continua a segnare lo sguardo gettato dall’artista sulla civiltà contemporanea. Si tratta di opere eleganti e raffinate in cui Pace fa riemergere dal centro del quadro cromatismi di grande forza evocativa. Evidente comunque il legame con l’Informale così come anche nelle sue ultime  ricerche. Pace con le serie degli embrioni cerca di interpretare nella materia stessa il fascino e il mistero della vita. Alla denuncia sociale sembra quindi subentrare il bisogno di confrontarsi con tematiche metafisiche e questo può valere con l’ultimissima serie di lavori, in cui riprende il tema della carta vetrata, tracciando le sue intense e cromatiche forme-segno su fondo bianco assoluto,  quasi simbolo di una purezza che può essere tranquillamente presa a emblema di quella coerenza morale con cui ha esplorato il mondo dell’arte per oltre mezzo secolo.

Carlo Pace è ancora in buona parte un artista da scoprire. Moltissime sue opere non sono mai state viste, custodite nello studio dove ha passato la vita in una ricerca inesausta e che oggi è custode di migliaia di suoi lavori. Un lascito immenso di un artista dal carattere schivo e che, proprio in virtù di questa sua solitudine, non ebbe tutti i riconoscimenti che avrebbe meritati. Pace non era uomo capace di venire a quei compromessi che spesso sono indispensabili per aprire certe porte. Ne era cosciente, come appare anche nelle sue note autobiografiche dove ripensa più volte alle occasioni perdute. Dobbiamo allora ringraziare  critici come Dino Molinari e Marisa Vescovo che, attraverso i decenni, hanno sempre saputo riservare adeguata attenzione a questo artista alessandrino che amava nascondersi al  mondo dentro il suo studio. Oggi è il momento di rendere una sia pur tardiva giustizia a Pace, assegnando al suo percorso la  collocazione  che gli spetta nel panorama dell’Informale e dell’Arte aniconica italiana.

Alberto Ballerino

Il collezionista Carlo Pace

di Dino Molinari

Curioso,  sperimentatore, ricercatore, motivato dal padre,  bibliografo, numismatico, filatelico, grande collezionista d’ arte moderna Carletto non poteva non  essere anch’ egli collezionista. Fin da bambino ha collezionato di tutto, in particolare prodotti editoriali: figurine,  serie complete di riviste per i bambini, a partire da “Il corrierino dei piccoli” e fumetti in genere, ai romanzi di Salgari, ai francobolli, ma anche modellini di automobili, i giocattoli di latta, le “500£” d’ argento negli anni sessanta, i “miniassegni” negli anni settanta. Di notevole interesse  la collezione dei  manifesti del cinema (centinaia) che gli verranno in seguito cercati da critici cinematografici importanti ma  che egli, con  le radici familiari di incallito commerciante,  già ha venduto, pentendosene amaramente. “Le cartoline d’ epoca”, specialmente quelle degli inizi del secolo scorso, meglio se affrancate, sono state la sua vera passione, però! A partire dal 1973 a tutti gli anni ottanta, Pace utilizza le vecchie cartoline per farne delle vere e proprie miniature. Abrase sulla superficie illustrata, rielaborate con tratto nero, veloce, sicuro e essenziale alcune, altre dipinte con oli, smalti, colle e quant’ altro.  Tutte quante sono marchiate da quelle “sinuose e sottili zampe di ragno”che paiono aggrapparsi alla carta violentandone la superficie, vuoi in intricate “tele-ragne”, vuoi in impronte di “spine dorsale” inquietanti e dolenti.  Segnaliamo in fine, ma non ultime per importanza le Carte assorbenti e le Pergamene, retaggi della storica cartoleria di via Migliara, rese con leggerezza quasi lirica, in una sorta di spartiti musicali.

Dino Molinari

I fattori dell’arte di Pace

di Dino Molinari

I fattori  che caratterizzano l’arte di Pace si possono così riassumere:

1) la precocità dovuta a due ragioni principali l’innata sensibilità,  la predisposizione connaturata verso l’arte e l’ambiente familiare in cui è cresciuto e si è formato.

2) l’unicità e l’originalità in quanto il modo di fare arte di Carletto Pace è del tutto estraneo agli schemi della cultura figurativa alessandrina.

Di fronte alle innovazioni delle avanguardie (primo e secondo futurismo,  astrattismo, astrattismo geometrico, informale), Alessandria si è sempre dimostrata  refrattaria,  fino all’inizio degli anni settanta quando  viene inaugurata la Sala Comunale. Mi pare quindi legittima l’affermazione che Pace abbia rappresentato, in special   modo negli anni ’50 e ’60, un’autentica proposta innovativa, aderendo tramite un’esatta lettura dello spazialismo di Fontana, dell’arte nucleare confluita poi  nel MAC  di Dova, Crippa, Dangelo, Allosia.. a una nuova concezione della materia, del segno, del gesto che in Italia veniva teorizzata da Francesco  Arcangeli. Pace si inseriva, forse intuitivamente, istintivamente, più che razionalmente, data l’età, in quel processo planetario quale fu l’informale in tutte le sue molteplici manifestazioni estetiche, filosofiche, esistenziali;

3) la ricerca come dialettica, l’eclettismo, lo sperimentalismo.

Questi tre aspetti della pittura di Pace, pur possedendo diverse e svariate  implicazioni,  in realtà sono intimamente collegati. La ricerca come fattore dinamico, propulsore, induce necessariamente all’eclettismo e alla sperimentazione quali momenti fondanti della ricerca stessa.

La ricerca e la sperimentazione sono due elementi che marciano in parallelo. Gli studi di sperimentazione di Pace sulla “forma” richiedono una particolare attenzione per i materiali da utilizzare di volta in volta, dal colore o pigmento cromatico al supporto, dall’oggetto recuperato e reinserito in un nuovo circuito estetico al ready-made  vero e proprio. A volte i colori sono tradizionali: olio, tempera, smalto; sovente e, in certi periodi è la regola, predominano sostanze colorate, in polvere o liquide, che vengono associate o conglutinate con agenti vettori quali colle, vinavil, cementite, cere, vernici, emulsioni e quant’altro. I risultati sono i più disparati, anche se voluti, calcolato, calibrati, in una sorta di alchimia che consente a Pace di ottenere gli effetti desiderati e progettati. Spesso è la combinazione dei reagenti a prendere il sopravvento sul progetto originale, creando una operazione “in fieri”, mai casuale, sempre controllata, a volte con esito diverso dal progetto, anche migliore. I “supporti” hanno un’importanza determinante sulla realizzazione dell’opera in quanto sono, forse ancora più dei  pigmenti, una componente che incide in modo meno palese, più subdolo, sulla  conduzione  e sulla conclusione dell’ idea.

Oltre i supporti tradizionali quali tela, tavole, cartone, carta.. Pace utilizza il cartone ondulato da imballo, le carte assorbenti, le carte crespe policrome, i feltri, le reticelle metalliche, il vetro, la carta a vetro, le vecchie cornici riutilizzate come parte integrante dell’ opera. La curiosità innata, la necessità di documentarsi e di confrontarsi con le svariate correnti di pensiero, hanno inciso su particolari momenti della ricerca.

I percorsi dell’ arte di Pace sono tutt’altro che rettilinei; gli va riconosciuta una  non comune capacità di attraversamento, fra i cavalli di frisia della scena artistica internazionale, in quanto egli è riuscito a ridurre tutte le acquisizioni al denominatore comune della sua personalità, alla specificità del suo mondo e del suo modo di essere. Le sue opere, pur nella molteplicità d’ iniziativa, presentano un inconfondibile marchio di riconoscibilità, una logica consequenziale che consente di individuare il carattere di specificità che lo contraddistingue.”

Dino Molinari

Carlo Pace, la poetica del segno

logodi Alberto Ballerino

Migliaia di oere per riscoprire un artista controcorrente, che ha pagato con l’esclusione dai grandi circuiti espositivi la propria coerenza e refrattarietà alle regole della civiltàdello spettacolo. La sistemazione dell’archivio di Carlo Pace ci permetterà di apprezzare nella loro pienezza le rice
rche di un  maestro che, nelle sue continue sperimentazioni, ha vissuto con una propria originalità i percorsi culturali della seconda metà del Novecento.

Il punto di partenza è la grande rivoluzione dell’Informale che negli anni Cinquanta investe l’Europa. Carlo Pace non solo è giovanissimo quando abbraccia la grande novità di un movimento che sta trasformando completamente la scena artistica ma è anche il primo a introdurla ad Alessandria, svolgendo quindi un ruolo di rottura nel contesto locale. Non poteva avere  nessun riferimento in un ambito cittadino saldamente legato al figurativo, ma era cresciuto in un ambiente particolare grazie al padre Luigi, importante collezionista,  che aveva frequenti contatti con galleristi, editori e critici particolarmente legati allo spazialismo e a grandi artisti come Lucio Fontana. Questo spiega non solo una scelta che non aveva riferimenti nella cultura locale ma anche la precocità di Carletto che realizza le prime opere nel 1952, quando ha solo 15-16 anni. Vive questa fondamentale stagione in tutti i suoi percorsi, partendo dallo spazialismo di Fontana e  dal nuclearismo per arrivare a quella nuova idea della materia e del segno che saranno propri della  poetica informale, in Italia teorizzata da Francesco Arcangeli.  Pace per tutto il decennio rimane l’unico artista alessandrino che si inserisce in questo grande momento rivoluzionario. In città altri riferimenti per una pittura non figurativa si hanno solo nell’edizione del 1957 del Premio Città di Alessandria, che vede la partecipazione di maestri come Berti, Nativi, Bendini, Raspi, Accardi, San Filippo, Parzini e Dorazio, che conquista  anche il primo premio, sia pure insieme ad Aligi Sassu.

Negli anni Sessanta l’Informale entra in crisi e Pace, avvertendo l’impasse di questa esperienza, cerca nuove vie, ponendo l’accento più sulla pittura che sull’elemento materico in sé. Il suo personale cammino verso il recupero della figura si concretizza con una serie di composizioni a carattere totemico che rappresentano sempre delle donne. È un evoluzione che richiama il cubismo e il post cubismo, in cui emerge un tratto ricorrente in Carletto di denuncia sociale e contemporaneamente di disagio personale. Queste figure femminili senza braccia e occhi sono immagini di un’inquietudine, in cui è difficile separare il malessere dell’uomo Pace da quello più generale di una civiltà considerata alienata e priva di autenticità. Questa tendenza critica è uno dei fili rossi che caratterizzano tutto il suo percorso, al di là dei diversi indirizzi che prenderanno le sue ricerche.

Gli anni Settanta vedono Pace approfondire il dada storico, il neo-dada, la pop art e soprattutto l’arte povera, nello spirito del concettualismo. Utilizza vari materiali di recupero, dalle scatole di imballo al cartone ondulato, dal metallo al legno. Il confronto è in parte sempre con l’antico maestro, Lucio Fontana. Se questi con il suo famoso gesto aveva cercato la tridimensionalità,  distruggendo il  piano del quadro, ora si tratta di trovare una dimensione operativa nuova. Pace cerca di uscire dal rettangolo della  gabbia dentro la cornice per andare a lavorare direttamente sulla materia, che diventa il vero e unico soggetto dello spazio. Tra i materiali da sempre più amati figura sicuramente la carta,  intesa in tutti i modi possibile: carte assorbenti, spartiti musicali, rotoli di carte policrome, carta vetrata. Questo aspetto è presente addirittura nella sua infanzia, come  spiega nelle note autobiografiche, quando nella cartoleria della famiglia, davanti a un foglio di carta non poteva resistere alla tentazione di disegnare, di tracciare un segno. E qui si trova un  altro filo rosso di tutta la produzione di Pace, che attraversa ogni fase del suo percorso. Il suo segno  è un qualcosa di inconfondibile e immediatamente riconoscibile, che attesta la personalità e originalità del lungo percorso delle sue ricerche.

Nascono in questo periodo le formelle. Si tratta di piccole tavole di legno quadrate che Pace incide nella zona centrale con delle sgorbie, riempiendole con pigmenti in modo da creare uno spazio liquido dai contorni irregolari. Le superfici vengono grattate con un foglio di carta vetrata, realizzando un effetto atmosferico di erosione.

Ma le opere più importanti degli anni Settanta sono sicuramente le spine dorsali, che segneranno fortemente il percorso artistico di Pace, riemergendo ancora dopo molti anni nelle trasformazioni generate da una ricerca destinata a concludersi solo con la sua scomparsa. In questo periodo si presentano come dolorosi reperti archeologici che escono da un fondo nero che vuole riflettere un’epoca priva di luce e di speranze, regno della sopraffazione e della violenza. Sono un simbolo di violenza antica e moderna, richiamano torture che arrivano dalle profondità della storia ma il cui orrore è ancora ben presente. Pace, utilizzando veramente ogni tipo di materiale, avvia una ricerca dai mille rivoli. Molto tempo dopo,  all’inizio del nuovo millennio, le spine dorsali ritornano con la serie delle tessiture. In questo caso solcano uno spazio  decisamente più luminoso, cercando di ricucire i fili della memoria e di una ricerca mai finita. Si passa in altre parole dal momento della rabbia e della denuncia a quello della riflessione di tutto un percorso. Proprio partendo dai suoi lavori forse più importanti, Pace cerca di ripensare le ragioni del suo fare arte e delle vie seguite.  Non a caso nelle mostre del 2005 alla galleria ‘La Cittadella’ e alla libreria Mondadori di Alessandria vorrà mettere a confronto le spine dorsali degli anni Settanta con le nuove tessiture,  stabilendo così in modo chiaro ed evidente un legame tra le opere di anni prima e le più recenti che vogliono recuperare e aggiornare quell’esperienza. Successivamente, anche quando la ricerca lo porta su altri temi, le spine dorsali riemergeranno, come un fiume carsico che  può riaffiorare in ogni momento. Così anche nella successiva serie delle carte vetro con smalto è possibile trovare delle nuove interpretazioni di questo filone, destinato a rimanere  fino alla fine uno dei punti più alti della poetica dell’artista alessandrino.

Accanto alle spine dorsali, l’altra produzione più importante di Pace sono i fonemi, che caratterizzano la sua attività negli anni Ottanta. Si tratta dell’approdo più significativo di quella  attenzione al segno che si è già visto essere uno dei tratti distintivi di tutto il suo percorso artistico. I fonemi nella lingua italiana sono l’unità minima distintiva del suono,  per Pace diventano un grafismo che intende diventare musicalità attraverso un linguaggio essenziale ma allo stesso tempo lirico. Questa svolta va letta anche alla luce dell’amicizia con Rocco Borella che con i suoi cronemi cercava  una sensazione originaria che i colori e le loro figure sono in grado di evocare. Il limite dell’essenzialità viene raggiunto da Pace con i fonemi più segnici, realizzati su fondo bianco, che trasmettono una esigenza fortissima di comunicazione e sembrano richiamare gli spartiti della musica elettronica. Altri, invece, sono a tessera cromatica, presentandosi più lirici e pittorici. In questo incontro tra suono e segno, Pace cerca di definire un linguaggio universale, capace di superare ogni barriera comunicativa in virtù di una primordiale e originale espressività poetica.  Questa preminenza di una lirica grafico gestuale trova conferma anche nelle tante incisioni realizzate negli ultimi due decenni del Novecento, molte delle quali vengono dipinte e trasformate in pezzi unici.

Altro aspetto che riemerge in modo costante in Pace è il legame con la poetica dell’Informale. È stato il primo a portarla ad Alessandria e ad essa comunque rimarrà in qualche modo sempre legato. Riaffiora in modo prepotente con il ritorno alla pittura degli anni Novanta: colori, materia e segno delineano forme in fieri, in cerca di una qualche aggregazione. Un tratto distintivo, in questa nuova ricerca, è quell’eleganza aristocratica del tratto che sempre accompagna Pace in ogni sua svolta. L’Informale è forma espressiva attraverso la quale l’artista alessandrino trova quella libertà indispensabile per esprimere la propria vena lirica, il suo desiderio di libertà,  inquietudini  e denunce sociali. In questo quadro va inserita anche la fase nei primi anni del Duemila in cui realizza polittici composti da grandi tele verticali in cui colature e  segni animano le superfici cromatiche. Sono opere potenzialmente infinite, a cui è sempre possibile aggiungere nuove parti, in quella ricerca  di libertà che è assolutamente insopprimibile in Pace. Ancora una volta, vengono rifiutati i limiti della tradizionale cornice, riprendendo un discorso che anch’esso riaffiora periodicamente nella sua ricerca.

Pace, quindi, non abbandona mai del tutto le proprie esperienze ma tende a recuperarle in un ambito diverso. È il caso della carta vetrata, che dal 2006 viene riproposta come nuova pelle dello spazio pittorico, capace di riecheggiare con la sua ruvidezza l’amarezza di un disagio esistenziale che continua a segnare lo sguardo gettato dall’artista sulla civiltà contemporanea. Si tratta di opere eleganti e raffinate in cui Pace fa riemergere dal centro del quadro cromatismi di grande forza evocativa. Evidente comunque il legame con l’Informale così come anche nelle sue ultime  ricerche. Pace con le serie degli embrioni cerca di interpretare nella materia stessa il fascino e il mistero della vita. Alla denuncia sociale sembra quindi subentrare il bisogno di confrontarsi con tematiche metafisiche e questo può valere con l’ultimissima serie di lavori, in cui riprende il tema della carta vetrata, tracciando i suoi sempre elegantissimi cromatismi su uno sfondo bianco assoluto,  quasi simbolo di una purezza che può essere tranquillamente presa a emblema di quella coerenza morale con cui ha esplorato il mondo dell’arte per oltre mezzo secolo.

Carlo Pace è ancora in buona parte un artista da scoprire. Moltissime sue opere non sono mai state viste, custodite nello studio dove ha passato la vita in una ricerca inesausta e che oggi è custode di migliaia di suoi lavori. Un lascito immenso di un artista dal carattere schivo e che proprio in virtù di questa sua solitudine non ebbe tutti i riconoscimenti meritati. Pace non era uomo capace di venire a quei compromessi che spesso sono indispensabili per aprire certe porte. Ne era cosciente, come appare anche nelle sue note autobiografiche dove ripensa più volte alle occasioni perdute. Dobbiamo allora ringraziare  critici come Dino Molinari e Marisa Vescovo che, attraverso i decenni, hanno sempre saputo riservare adeguata attenzione a questo artista alessandrino che amava nascondersi al  mondo dentro il suo studio. Oggi è il momento di rendere una sia pure tardiva giustizia a Pace, assegnando al suo percorso la  collocazione  che gli spetta nel panorama  italiano  della storia dell’Arte.

Alberto Ballerino
Aprile 2013

Alla scoperta del pittore alessandrino da “Nella nebbia” (2008) di Carmen Tona

di Carmen Tona

“C’era una vorta, quannartnellanebbia2008o ancora c’era quello ch’adesso nun se trova più, un artista tanto mai sincero che trattava la gente a tu per tu”.

Parafrasando l’inizio di un celebre sonetto del poeta romano Trilussa, vorrei raccontarvi il mio incontro con Carlo Pace, pittore alessandrino. Vi è mai capitato di crearvi l’immagine mentale di una persona nel momento stesso in cui ve ne stanno parlando? E di ritrovarvi poi davanti tutt’altra figura? A me è successo. Tempo fa mi parlavano di Carlo Pace.
E nella mia testa l’immagine di un uomo alto e corpulento. Con la barba, le mani grosse e tozze e gli occhi chiari, vispi. Mi sono sbagliata su tutto. Quasi tutto. Perché gli occhi che mi immaginavo erano uguali a quelli reali. Che caldo faceva quel giorno. Insopportabile. Nemmeno l’aria condizionata della macchina sembrava dare tregua.
Suoniamo il campanello. Il portone di un vecchio palazzo nel centro di Alessandria ci viene aperto. Spicca una polo viola. Davanti a noi il pittore. Ci stringe la mano. Lo seguiamo. Al piano terra del palazzo lo studio, piccolo, sembra creato su misura per lui. Salta subito all’occhio un divano leopardato che un poco stona con i colori delle sue opere. Al primo impatto l’odore dei colori è forte, ti penetra nelle narici. Poi dopo qualche minuto non te ne accorgi più neanche. Ti abitui e sembra quasi piacerti.

2-alla-scoperta...Da una piccola radio proviene della musica di sottofondo. Molti quadri sono poggiati per terra, alcuni appena terminati. Mi dispiace vedere quelle tele sul pavimento. Ma di spazio intorno libero ce n’è ben poco. I nuovi colori, il nuovo esperimento di Carlo Pace si chiama graniglia di carta vetro. Sembrano dei quarzi, delle pietre preziose o solamente dello zucchero bianco, bianchissimo. “Mi chieda quello che vuole sapere” è stata la prima frase che Carlo Pace mi ha rivolto. Ma non so ancora perché, in quel momento mi sono sentita in soggezione. Ho chiesto di parlare a ruota libera.

“Quando ero ragazzo mio papà conosceva tutti i pittori di un tempo, quelli che contavano. Gli spazialisti. Sono nato nel periodo in cui si è sviluppata la corrente informale legato allo spazialismo. Ho frequentato lo studio di Fontana. E sono entrato subito nella mischia. Ritengo di essere sempre stato un contestatore. Mi piaceva andare al cinema a vedere i film di Marlon Brando”. Continua Pace, e ci svela quella che per lui è stata una fortuna “Ho avuto una fortuna nella vita: possedere l’incoscienza di non aver dietro le spalle una storia e degli insegnanti”.

Nel 1962, il suo periodo informale. “Il SEGNO è la cosa peculiare per il mio lavoro. La mia è stata una figurazione molto personale per circa dieci anni. Ma non sono stato capito. Tante volte mi sono sentito un pesce fuor d’acqua”.
Nel 1972-1973 il desiderio di ricerca “Ho svolto un’indagine su Lucio Fontana. Pollock è un grande. Fontana ha distrutto tutto. La pittura dopo Fontana era finita”.

Lucio Fontana: mi sono documentata su questo artista per meglio comprendere anche Pace ed i suoi discorsi. Fontana, ovvero il fondatore del movimento spazialista. Da qualche parte ho letto «I pittori spazialisti non colorano la tela, non la dipingono, ma creano su di essa delle costruzioni che mostrano agli occhi del passante come, anche in campo puramente pittorico, esista la tridimensionalità. Lucio Fontana ha ideato i famosi tagli nella tela: tele monocromatiche nelle quali vengono praticate delle incisioni.»

Racconta Carlo Pace: “Nel 1973, la mia vita contro Fontana. Lui con (un) IL gesto aveva distrutto il quadro. Nell’esigenza di ridare una dimensione al quadro stesso”. Per me il senso non è lavorare per il quadro in se ma per continuare il discorso nella storia dell’arte”. Un anno importante per Pace è il 2000. “Nel 2000 nascono le cuciture. Spine dorsali di filo”.
Ma cos’è la pittura si chiede Pace? Che al tempo stesso si risponde: “Uno si alza la mattina. E’ contento, prende la sua tela e inizia a disegnare il paesaggio. Io la mattina mi alzo sempre incazzato. E non posso mettermi li a dipingere il paesaggio e l’alberello. Di quadri così potrei crearne 10 al giorno. Considero ormai finita la pittura ad olio”. Ma un bel giorno Pace ritrova un pezzo fatto su carta vetro nel 1970. E lo riprende. “La carta vetro è la faccia, la pelle del quadro. La nuova pelle. Pittura identificata alla persona fisica. Dove il colore è parte della pittura e del quadro. Un modo di lavorare fondamentale per me quello con la carta vetro. Mai usata da nessuno. Un’innovazione importante. Ora ho trovato, oltre alla carta vetro classica una carta vetro da ricreare sulla tela. Sono tutte esperienze. Anche se ho sempre ripensamenti quando mi addormento pensando alle mie tele. Mi piace passare vicino ai miei quadri, ruvidi. Sono del parere che un po’ di fortuna poi ci vuole nella vita. E capita se trovi l’elemento giusto”.

La GRANA con cui viene fatta la carta vetro si trova in tutti i colori. A noi colpisce quella bianca. Candida. “La musica mi piace. Non a caso i FONEMI sono tutti un discorso musicale”. E continua “Ho tante idee in testa. Tante. Disegno anche bene” e ci mostra disegni creati con la china, bellissimi, del 1953, che Pace definisce “Elogio al bel segno. Alcuni artisti fanno sempre lo stesso segno. Io credo di modificarlo”.

Il 1977 è l’anno delle anatomie. Nella sua lunga carriera Carlo Pace ha utilizzato davvero qualsiasi materiale possibile per realizzare le sue opere. Anche la lavanda vaginale “Che brucia il foglio. O la carta assorbente nel 1979 con lo smalto: il suo odore non passa mai. Del 1992 lo smalto su cartoncino. Ho usato di tutto. Qualsiasi cosa”. Poi, con sguardo vivace ed un ghigno sornione aggiunge “L’unica cosa che non ho fatto sai cos’è stata? Cercare di farmi un nome. Una notorietà. Me ne sbattevo. Come adesso”.

A breve sarà allestita una mostra antologica con le opere di Pace ad Alessandria, con monografia, al palazzo della Regione. Successivamente i quadri di Pace saranno i protagonisti di una mostra a Milano. Qualcosa in programma anche a Vercelli, ma per ora top secret.
Entriamo poi nel bunker, una stanza dall’altro lato del cortile, sorvegliata da un guardiano particolare, un manichino in legno. Ad accoglierci la tela intitolata “Occhio del quadro”. Poi tante spine dorsali , carta vetro dura, nero che predomina, nero tutto nero. Quello degli anni 70 è stato un periodo nero. E quando si parla di periodo nero, il nero è veramente nero, non c’è luce o spazio per nessun altro colore. “Ho usato anche l’olio da macchina bruciato. L’ennesimo di una serie di esperimenti che si sono ripetuti uno dopo l’altro. Poi la carta crespa, a formare una figura a soffietto. Nel decennio che va dal 1962 al 1972 ho creato delle figure che, a guardarle, possono esser sia maschi che femmine. Sono figure, e colori, a tinte forti. Pensare che all’epoca ne ho venduti tanti ed alcuni sono stati posizionati nelle camere dei bambini. Anche se non erano nati con quello scopo. A pensarci” dice ridendo “potrei affermare di aver creato i viados prima del tempo”.Alza lo sguardo Carlo Pace. Ruota la testa a destra e sinistra. Osserva le pareti, si guarda intorno: “”Qui dentro c’è tutta la mia vita”

Nellanebbia (settembre 2008)

La ruvida carezza della carta vetrata

di Carlo Pesce

Lo studio di Carlo Pace si trova nel centro storico di Alessandria. C’è silenzio nel cortile sul quale si affaccia la porta del suo laboratorio. Due stanze che odorano di solvente, centinaia di quadri variamente datati, dagli anni Cinquanta a oggi. Sul tavolo un lavoro in divenire. Appoggiati alla spalliera del divano altre due opere concluse da poco. Dalla radio escono le note di una canzone napoletana.

Ti giri  intorno e guardi l’accumularsi dell’esperienza pittorica di uno sperimentatore, la rappresentazione dell’inquietudine di un uomo che ha costruito con ii suo lavoro di artista la propria esistenza. Carlo Pace racconta di come nascono certe sue intuizioni, afferma che talvolta lo sorprendono mentre sta per addormentarsi, e lui le segue fino a afferrarle e a trasformarle in quello che vediamo, in opere che per la complessità del gesto creativo sarebbe limitativo definirle solo “pitture”. Per questo l’evoluzione del discorso artistico di Pace è fatta di accelerazioni improvvise, di trasformazioni repentine che talvolta sorprendono. Eppure, ogni volta che comincia a definirsi una nuova serie di lavori c’è sempre un collegamento con qualcosa che lo ha preceduto, si intuisce sempre un riferimento a un momento più o meno preciso del percorso culturale di Carlo Pace. Nulla è casuale,scavando appena ecco affiorare la radice cui si attacca il ramo della nuova idea. Carlo Pace ha parecchi anni di esperienza aile spalle, ha conosciuto critici e artisti che gli hanno parlato e hanno posto i presupposti di quella che tranquillamente potrebbe essere definita una “maniera”. Egli si avvale di una notevole forza che gli ha permesso di cambiare, di mettersi sempre in discussione, in modo da poter essere sempre aggiornato, con la sua capacità di osservare come si muoveva – e si muove – il mondo dell’arte.

 Ciô che si è determinato è un qualcosa di particolarmente intenso, di vigoroso, costruito sul piano di una continuità formale che in ben pochi della sua generazione hanno saputo mantenere.

Negli anni Settanta Carlo Pace realizzò una serie di piccoli lavori, delle tavole quadrate di quaranta centimetri di lato. La struttura di quasi tutti quei manufatti presentava una sezione centrale ricavata attraverso l’incisione del legno con sgorbie. Ciò che si determinava era uno spazio liquido, dai limiti non regolari, trattenuto da bordi levigati che limitavano l’espandersi dinamico della struttura più interna. I pigmenti che si stendevano a coprire la superficie di ogni singola “formella” variavano, dal grigio antracite al giallo squillante, a volte mischiati, a volte drammaticamente solitari. Ma l’azione del pittore non si limitava soltanto alla stesura del pigmento, spesso unito a collanti che ispessivano la materia rendendola durissima, simile a un’ambra perlacea; egli concludeva l’operazione grattando la superficie con la-manoun foglio di carta vetrata, asportando e ridistribuendo i colori per creare un effetto particolare, un effetto atmosferico di erosione.

La serie di opere, percepite in rapida sequenza, dimostra la bontà di un’operazione che mischia gesti che appartengono alla scultura – l’utilizzo di una sgorbia e la piallatura con la carta a vetro – a esiti che non possono che essere considerati pittorici. L’artista si mette a completa disposizione dell’arte, accetta la sflda con un materiale che lo costringe a compiere un’operazione di trasformazione che gli permette di contenere la forza dirompente della pittura accettandone i limiti. Ciô che si determina è una visione primordiale, un tuffo nel liquido amniotico che costringe l’osservatore a fare i conti con la sua origine di essere vivente. È, in fondo, una percezione degli imzi della propria esistenza, il ricordo di quel viaggio finalizzato alla costruzione dell’anima del quale restano pochi frammenti cristallizzati nella memoria di ogni pensante. Pace ci invita a osservare delle forme che esplodono di fronte ai nostri occhi non ancora abituati a percepire la realtà, quella realtà che si manifesterà in tutta la sua crudezza nel momento in cui, abituati alla semioscurità trasparente del ventre matemo, avremo la percezione della luce esterna.

Tutti i lavori realizzati a partire dal tardo autunno del 2007, pur collocandosi in diretta continuazione con le recenti cuciture policrome, sembrano derivare in modo più marcato da quei piccoli manufatti realizzati negli anni Settanta. Perô, considerare solo le “formelle” ’70  quali unici riferimenti a questi lavori si commetterebbe un grave errore. In effetti, la centralità dell’elemento su cui si imposta l’atto creativo riporta anche alla realizzazione delle “Spine dorsali” – forse la fase artistica più importante di Carlo Pace -, molle di queste create negli anni Settanta, straordinarie costruzioni archeologiche, strutture che affiorano dalle nebbie d un passato lontanissimo come elementi fossilizzati di vite organiche precedenti. Le spine dorsali trasmettono inquietudine, sono scheletri che emergono in uno spazio pieno di cattiveria e di sporcizia, uno spazio che tende a contaminare, inquietare anche la purezza dell’assoluto.

Ora, al reade made catramoso di quegli anni si è sostituita una più “raffinata” ricerca di oggetti, privi di valore che Egli nobilita facendoli diventare oggetto di rappresentazione artistica e, in quanto tali, risultano essere il senso stesso della rappresentazione. Essi, esposti al centro di una tela come se fossero monili preziosi,  si trasformano in parte di un’opera d’arte, diventando qualcosa di ben diverso da ciò che sono realmente. C’è molta rabbia in questi lavori, s’intravede una forte critica del consumismo verso cui ci siamo diretti, Non è un caso che  gli sfondi  delle opere che costituiscono questa fase della ricerca di Carlo Pace siano tristemente scuri, talvolta drammaticamente macchiati da plumbee, pesantissime gocce di pasta metallica, talvolta occupati da ampie stesure di cafta vetrata. Questo materiale, cosI difficile,così poco duttile, è diventato l’epidermide su cui Pace ha costruito i suoi ultimi lavori. Dapprima la carta vetrata aveva un utiiizzo limitato, serviva all’artista per grattare le superfici, per ridurre a altro le campiture di colore che supportavano le sue silenziose costruzioni artistiche. Adesso anche questo materiale, un tempo a esclusivo servizio del completamento del lavoro, assurge a una dignità superiore sostituendosi ai tradizionali sfondi dipinti. Pace inventa una “poetica” della carta vetrata. Per l’autore è decisamente più affascinante questo materiale, quindi il supporto, piuttosto che ciò che si distende sulla superficie. Per questo sia le strisce di smalto fatte colare da un punto facilmente individuabile sulla superficie della carta vetrata, sia qualsiasi altro elemento appoggiato o saldamente attaccato a essa, sono da interpretare solamente come dei dettagli, come dei momenti di sperimentazione che servano a percepire un effetto. Pace sembra chiedersi in continuazione che cosa può accadere quando si deposita uno stesso pigmento su una superficie diversamente trattata. Egli agisce violentemente sul supporto, graffiandolo, scavandolo, cercando l’eliminazione di uno strato per sostituirlo con un simulacro cromatico. L’effetto è terribile nella sua forza dinamica, si assiste all’affermazione sulla scena di un protagonista di “secondo piano” al quale spettava un più banale e oscuro compito caratterizzante. È il supporto, che trionfa nella sua ruvida bellezza, nella sua tattilità incontenibile, nella sua trasparenza minerale. L’artista crea contemporaneamente sinopia e affresco, un modo per cogliere la realtà del mondo che supera il più tradizionale meccanismo ottico della percezione. Pace cattura la visione di un’emozione, cattura l’immagine di una vita vissuta nella convinzione che l’infinito è ora.