di Filippo Mollea Ceirano, 27 aprile 2018
Condensare in un testo, in una mostra, in una cosa sola l’esperienza artistica di Carlo Pace è impresa impossibile: è stato uno di quei rari artisti che, disinteressato, quasi infastidito dal mercato, non si è mai sottratto né agli esiti a cui la sua ricerca lo ha di volta in volta portato, né ad alcuna delle questioni che l’arte del suo tempo gli ha posto. Infatti – e mai come in questo caso la conoscenza della storia personale dell’artista diventa strumento importante per una comprensione corretta del suo lavoro – si ha a che fare con una figura che, altra rarità (quanto meno nel secolo ventesimo), in tutta la sua vita non ha sola ora di lavoro – nel senso di lavoro alienato, di attività umana espropriata del suo senso – da rimproverarsi.
Per questo immergersi nella vasta produzione di Pace, capirla a fondo, non consente mai di abbandonare né il gusto per la percezione dell’oggetto, né la riflessione sul senso di ciò che vi indaga. Ciò vale per tutte le opere da lui realizzate, anche per quelle meno riuscite, anche per quelle che hanno qualcosa di acerbo, di irrisolto, di non definitivo; per questo in esse ho sempre nel tempo trovato conferma dell’impressione che ebbi fin dalla prima volta che ne vidi una: nell’immediato attraggono per la loro forza estetica, per la suggestiva bellezza, per l’intensità nell’uso delle forme e dei colori; poi, terminato l’effetto del primo colpo d’occhio, iniziano lentamente a disvelarsi, a raccontare esperienze, riflessioni, indagini, progetti, ripensamenti.
È per tali ragioni che lanciarsi nell’impresa di organizzare una mostra di questo artista, oggi, muovendo dalle suddette premesse, richiede prima di tutto un certo coraggio: di fronte a una storia che si sviluppa per quasi sessant’anni, tutti dedicati alla ricerca, all’esplorazione di percorsi, allo sviluppo di idee e di intuizioni creative, davanti a un’esperienza così vasta e articolata, e ancora per buona parte così poco approfondita, diventa difficile selezionare delle opere, scegliere di porre l’attenzione su un ciclo a spese di un altro; né si potrà evitare la sensazione di avere lasciato fuori qualcosa di assolutamente importante, di avere comunque trascurato qualcosa.
Però, dopo tre anni dall’ultima esposizione tenutasi nel 2015 a Marcon, curata da Willy Montini, che ha offerto, attraverso una attenta selezione antologica delle opere e un buon apparato critico, una panoramica abbastanza completa del lavoro di Pace, bisognerà pure cominciare ad aprire quel ‘libro intonso’ che, come l’artista diceva di se stesso, «sarà la storia dell’arte a stabilire se sarà aperto o meno».
L’attuale mostra diventa allora una buona occasione per approfondire alcune delle pagine fondamentali di questo libro, per andare a scoprire, se non tutto, almeno qualcosa da cui valga la pena incominciare.
Le opere presentate dalla galleria Res Publica sono riconducibili principalmente a due dei più importanti percorsi della ricerca artistica di Pace: il ciclo delle Spine dorsali, intrapreso a metà degli anni ’70 e mai più abbandonato, e i Fonemi, su cui si concentrò soprattutto negli anni ’80; accanto ad essi, alcuni esempi della rara, breve esperienza intitolata Ricerca del punto centrale del quadro o, più brevemente, Centro del quadro.
Tra i molti aspetti che l’analisi di queste opere può aiutare ad approfondire, gli elementi su cui mi voglio soffermare sono le tre componenti che ritengo essere la costante fondamentale nell’opera di Pace, e che, in modi e per strade diverse, in questi cicli hanno trovato, a mio avviso, la loro sintesi migliore: il segno, la materia, la struttura.
Carlo Pace, è importante ricordarlo, inizia la sua ricerca, giovanissimo, nell’ambito di quella che era all’epoca (gli inizi degli anni ’50) l’esperienza più nuova e all’avanguardia, ovvero la pittura informale; ma i suoi contatti con le esperienze più innovative del dopoguerra (lo spazialismo, la pittura gestuale, l’arte nucleare) lo portano fin da subito a privilegiare la libertà di sperimentazione piuttosto che ricercare il consolidamento di uno stile. E così gli ingredienti principali dell’informale, il segno e la materia, che nelle ricerche iniziali si pongono come elementi separati, se non addirittura contrapposti, fin dalle sue prime opere si fondono in una sintesi che trova subito un esito maturo e convincente. Ma occorre fare i conti anche con le questioni poste dalla ricerca spazialista, avviata da Fontana già nella seconda metà degli anni ’40. Così, dopo gli approfondimenti successivi, oscillanti tra un’astrazione più definita e una particolarissima figurazione indagata per un breve arco di tempo, negli anni ’70 ritornano il segno e la materia. Ma, esaurita la spinta innovativa dell’informale, la loro forza espressiva originaria non è più sufficiente: si devono misurare nel loro rapporto con lo spazio; anzi, l’opera stessa non può più sottrarsi a questo confronto. Lo spiega lo stesso Pace nella sua autobiografia: «Lucio Fontana con il suo gesto aveva distrutto il quadro, io dovevo trovare una dimensione operativa nuova».
È a questo punto che la materia e il segno si ordinano dapprima sulla faesite, ponendosi alla “ricerca del punto centrale del quadro”; in queste opere un dettaglio centrale, geometrico, colorato, ben definito, è circondato dalla stesura uniforme di uno smalto monocromo, mosso da un segno minuzioso e regolare, un solco continuo che crea un intreccio labirintico inciso nella materia dello smalto che si irradia verso l’esterno.
Con le Spine dorsali, lo schema apre ancora più ampie e ricche varianti alla ricerca: gli squarci aperti nella tela da Fontana vengono richiusi, e verranno in seguito anche ricuciti, riempiti di materiali diversi. L’apertura, che nell’idea di Fontana va oltre l’opera, lo spazio vuoto sottratto all’artista per servire da porta attraverso cui lo spettatore supera il recinto chiuso del quadro, ridiventano superfice piena e dipinta; l’artista se le riprende, per farne il sostegno essenziale, il perno centrale in cui la materia si concentra e da cui il segno si allarga verso l’esterno. E così come il segno, che da traccia di inchiostro o di smalto si trasforma facilmente in tutto ciò che è idoneo ad essere segno, e ad assicurare un effetto nuovo, una fisicità inusuale (olio, filo, vetro, metallo, acido …) anche il supporto diventa subito occasione di sperimentazione della materia: dalle particolari, speciali carte che la cartoleria di famiglia gli metteva a disposizione, Pace nel tempo ha saputo variare testando tutto ciò che gli offerto nuove soluzioni espressive: dal cartone da imballaggio all’eternit, dal legno alla faesite, dalla carta assorbente alla cartavetro, dalla tela alle stoffe, dal velluto alle plastiche.
Gli anni ’80, nei quali l’evoluzione delle spine dorsali prosegue e si evolve, vedono poi l’invenzione dei Fonemi. Con questa parola, che indica «la più piccola unità di suono», Pace esprime la tensione verso una ricerca imperniata sulla sua massima semplificazione possibile: il segno rimane come elemento base, ridotto alla sua essenza, mentre la materia ritorna ad essere la sola pittura; a volte è ‘tirata’ al massimo e chiusa in brevi segmenti, larghi e uniformi, che si intrecciano secondo geometrie squadrate e regolari; altre volte invece si aggruma e si compone guidata da gesti che, pur restando minimi ed essenziali, sono morbidi, liberi, spontanei, a evidenziare come l’impasto del pigmento è lì per assecondare la mano dell’artista. Nell’uno come nell’altro caso, la struttura dei fonemi abbandona la composizione ordinata e simmetrica delle Spine dorsali e dei Centri del quadro per costruire reticoli, agglomerati molto più liberi e aperti, espressione dell’esigenza di riallacciarsi alle forme più disinvolte delle prime esperienze informali.
Per concludere, in questa mostra non c’è tutto Pace, ma c’è tutto ciò che serve per desiderare di conoscere il resto. C’è soprattutto ciò che serve a comprendere ciò che lo rende meritevole di molta più attenzione di quella che fino a ora gli è stata dedicata.