Migliaia di opere per riscoprire un artista controcorrente, che ha pagato con l’esclusione dai grandi circuiti espositivi la propria coerenza e refrattarietà alle regole della civiltà dello spettacolo. La sistemazione dell’archivio di Carlo Pace ci permetterà di apprezzare nella loro pienezza le ricerche di un maestro che, nelle sue continue sperimentazioni, ha vissuto con una propria originalità i percorsi culturali della seconda metà del Novecento.
Il punto di partenza è la grande rivoluzione dell’Informale che negli anni Cinquanta investe l’Europa. Carlo Pace non solo è giovanissimo quando abbraccia la grande novità di un movimento che sta trasformando completamente la scena artistica ma è anche il primo a introdurla ad Alessandria, svolgendo quindi un ruolo di rottura nel contesto locale. Non poteva avere nessun riferimento in un ambito cittadino saldamente legato al figurativo, ma era cresciuto in un ambiente particolare grazie al padre Luigi, importante collezionista, che aveva frequenti contatti con galleristi, editori e critici particolarmente legati allo spazialismo e a grandi artisti come Lucio Fontana. Questo spiega non solo una scelta che non aveva riferimenti nella cultura locale ma anche la precocità di Carletto che realizza le prime opere nel 1952, quando ha solo 15-16 anni. Vive questa fondamentale stagione in tutti i suoi percorsi, partendo dallo spazialismo di Fontana e dal nuclearismo per arrivare a quella nuova idea della materia e del segno che saranno propri della poetica informale, in Italia teorizzata da Francesco Arcangeli. Pace per tutto il decennio rimane l’unico artista alessandrino che si inserisce in questo grande momento rivoluzionario. In città altri riferimenti per una pittura non figurativa si hanno solo nell’edizione del 1957 del Premio Città di Alessandria, che vede la partecipazione di maestri come Berti, Nativi, Bendini, Raspi, Accardi, San Filippo, Parzini e Dorazio, che conquista anche il primo premio, sia pure insieme ad Aligi Sassu.
Negli anni Sessanta l’Informale entra in crisi e Pace, avvertendo l’impasse di questa esperienza, cerca nuove vie, ponendo l’accento più sulla pittura che sull’elemento materico in sé. Il suo personale cammino verso il recupero della figura si concretizza con una serie di composizioni a carattere totemico che rappresentano sempre inquietanti personaggi asessuati. È un evoluzione che richiama il cubismo e il post cubismo, in cui emerge un tratto ricorrente in Carletto di denuncia sociale e contemporaneamente di disagio personale. Queste figure senza genere, senza braccia e occhi sono immagini di un disagio, in cui è difficile separare il malessere dell’uomo Pace da quello più generale di una civiltà considerata alienata e priva di autenticità. Questa tendenza critica è uno dei fili rossi che caratterizzano tutto il suo percorso, al di là dei diversi indirizzi che prenderanno le sue ricerche.
Gli anni Settanta vedono Pace approfondire il dada storico, il neo-dada, la pop art e soprattutto l’arte povera, nello spirito del concettualismo. Utilizza vari materiali di recupero, dalle scatole di imballo al cartone ondulato, dal metallo al legno. Il confronto è in parte sempre con l’antico maestro, Lucio Fontana. Se questi con il suo famoso gesto aveva cercato la tridimensionalità, distruggendo il piano del quadro, ora si tratta di trovare una dimensione operativa nuova. Pace cerca di uscire dal rettangolo della gabbia dentro la cornice per andare a lavorare direttamente sulla materia, che diventa il vero e unico soggetto dello spazio. Tra i materiali da sempre più amati figura sicuramente la carta, intesa in tutti i modi possibile: carte assorbenti, spartiti musicali, rotoli di carte policrome, carta vetrata. Questo aspetto è presente addirittura nella sua infanzia, come spiega nelle note autobiografiche, quando nella cartoleria della famiglia, davanti a un foglio di carta non poteva resistere alla tentazione di disegnare, di tracciare un segno. E qui si trova un altro filo rosso di tutta la produzione di Pace, che attraversa ogni fase del suo percorso. Il suo segno è un qualcosa di inconfondibile e immediatamente riconoscibile, che attesta la personalità e originalità del lungo percorso delle sue ricerche.
Nascono in questo periodo le formelle. Si tratta di piccole tavole di legno quadrate che Pace incide nella zona centrale con delle sgorbie, riempiendole con pigmenti in modo da creare uno spazio liquido dai contorni irregolari. Le superfici vengono grattate con un foglio di carta vetrata, realizzando un effetto atmosferico di erosione.
Ma le opere più importanti degli anni Settanta sono sicuramente le spine dorsali, che segneranno fortemente il percorso artistico di Pace, riemergendo ancora dopo molti anni nelle trasformazioni generate da una ricerca destinata a concludersi solo con la sua scomparsa. In questo periodo si presentano come dolorosi reperti archeologici che escono da un fondo nero che vuole riflettere un’epoca priva di luce e di speranze, regno della sopraffazione e della violenza. Sono un simbolo di violenza antica e moderna, richiamano torture che arrivano dalle profondità della storia ma il cui orrore è ancora ben presente. Pace, utilizzando veramente ogni tipo di materiale, avvia una ricerca dai mille rivoli. Molto tempo dopo, all’inizio del nuovo millennio, le spine dorsali ritornano con la serie delle tessiture. In questo caso solcano uno spazio decisamente più luminoso, cercando di ricucire i fili della memoria e di una ricerca mai finita. Si passa in altre parole dal momento della rabbia e della denuncia a quello della riflessione di tutto un percorso. Proprio partendo dai suoi lavori forse più importanti, Pace cerca di ripensare le ragioni del suo fare arte e delle vie seguite. Non a caso nelle mostre del 2005 nella galleria ‘La Cittadella’ e nella libreria Mondadori di Alessandria, vorrà mettere a confronto le spine dorsali degli anni Settanta con le nuove tessiture, stabilendo così in modo chiaro ed evidente un legame tra le opere di anni prima e le più recenti che vogliono recuperare e aggiornare quell’esperienza. Successivamente, anche quando la ricerca lo porta su altri temi, le spine dorsali riemergeranno, come un fiume carsico che può riaffiorare in ogni momento. Così anche nella successiva serie delle carte vetro con smalto è possibile trovare delle nuove interpretazioni di questo filone, destinato a rimanere fino alla fine uno dei punti più alti della poetica dell’artista alessandrino.
Accanto alle spine dorsali, l’altra produzione più importante di Pace sono i fonemi, che caratterizzano la sua attività negli anni Ottanta. Si tratta dell’approdo più significativo di quella attenzione al segno che si è già visto essere uno dei tratti distintivi di tutto il suo percorso artistico. I fonemi nella lingua italiana sono l’unità minima distintiva del suono, per Pace diventano un grafismo che intende diventare musicalità attraverso un linguaggio essenziale ma allo stesso tempo lirico. Questa svolta va letta anche alla luce dell’amicizia con Rocco Borella che con i suoi cromemi cercava una sensazione originaria che i colori e le loro figure sono in grado di evocare. Il limite dell’essenzialità viene raggiunto da Pace con i fonemi più segnici, realizzati su fondo bianco, che trasmettono una esigenza fortissima di comunicazione e sembrano richiamare gli spartiti della musica elettronica. Altri, invece, sono a tessera cromatica, presentandosi più lirici e pittorici. In questo incontro tra suono e segno, Pace cerca di definire un linguaggio universale, capace di superare ogni barriera comunicativa in virtù di una primordiale e originale espressività poetica. Questa preminenza di una lirica grafico gestuale trova conferma anche nelle tante incisioni realizzate negli ultimi due decenni del Novecento, molte delle quali vengono dipinte e trasformate in pezzi unici.
Altro aspetto che riemerge in modo costante in Pace è il legame con la poetica dell’Informale. È stato il primo a portarla ad Alessandria e ad essa comunque rimarrà in qualche modo sempre legato. Riaffiora in modo prepotente con il ritorno alla pittura degli anni Novanta: colori, materia e segno delineano forme in fieri, in cerca di una qualche aggregazione. Un tratto distintivo, in questa nuova ricerca, è quell’eleganza aristocratica del tratto che sempre accompagna Pace in ogni sua svolta. L’Informale è forma espressiva attraverso la quale l’artista alessandrino trova quella libertà indispensabile per esprimere la propria vena lirica, il suo desiderio di libertà, inquietudini e denunce sociali. In questo quadro va inserita anche la fase nei primi anni del Duemila in cui realizza polittici composti da grandi tele verticali in cui colature e segni animano le superfici cromatiche. Sono opere potenzialmente infinite, a cui è sempre possibile aggiungere nuove parti, in quella ricerca di libertà che è assolutamente insopprimibile in Pace. Ancora una volta, vengono rifiutati i limiti della tradizionale cornice, riprendendo un discorso che anch’esso riaffiora periodicamente nella sua ricerca.
Pace, quindi, non abbandona mai del tutto le proprie esperienze ma tende a recuperarle in un ambito diverso. È il caso della carta vetrata, che dal 2006 viene riproposta come nuova pelle dello spazio pittorico, capace di riecheggiare con la sua ruvidezza l’amarezza di un disagio esistenziale che continua a segnare lo sguardo gettato dall’artista sulla civiltà contemporanea. Si tratta di opere eleganti e raffinate in cui Pace fa riemergere dal centro del quadro cromatismi di grande forza evocativa. Evidente comunque il legame con l’Informale così come anche nelle sue ultime ricerche. Pace con le serie degli embrioni cerca di interpretare nella materia stessa il fascino e il mistero della vita. Alla denuncia sociale sembra quindi subentrare il bisogno di confrontarsi con tematiche metafisiche e questo può valere con l’ultimissima serie di lavori, in cui riprende il tema della carta vetrata, tracciando le sue intense e cromatiche forme-segno su fondo bianco assoluto, quasi simbolo di una purezza che può essere tranquillamente presa a emblema di quella coerenza morale con cui ha esplorato il mondo dell’arte per oltre mezzo secolo.
Carlo Pace è ancora in buona parte un artista da scoprire. Moltissime sue opere non sono mai state viste, custodite nello studio dove ha passato la vita in una ricerca inesausta e che oggi è custode di migliaia di suoi lavori. Un lascito immenso di un artista dal carattere schivo e che, proprio in virtù di questa sua solitudine, non ebbe tutti i riconoscimenti che avrebbe meritati. Pace non era uomo capace di venire a quei compromessi che spesso sono indispensabili per aprire certe porte. Ne era cosciente, come appare anche nelle sue note autobiografiche dove ripensa più volte alle occasioni perdute. Dobbiamo allora ringraziare critici come Dino Molinari e Marisa Vescovo che, attraverso i decenni, hanno sempre saputo riservare adeguata attenzione a questo artista alessandrino che amava nascondersi al mondo dentro il suo studio. Oggi è il momento di rendere una sia pur tardiva giustizia a Pace, assegnando al suo percorso la collocazione che gli spetta nel panorama dell’Informale e dell’Arte aniconica italiana.
Alberto Ballerino