di Carmen Tona
“C’era una vorta, quanno ancora c’era quello ch’adesso nun se trova più, un artista tanto mai sincero che trattava la gente a tu per tu”.
Parafrasando l’inizio di un celebre sonetto del poeta romano Trilussa, vorrei raccontarvi il mio incontro con Carlo Pace, pittore alessandrino. Vi è mai capitato di crearvi l’immagine mentale di una persona nel momento stesso in cui ve ne stanno parlando? E di ritrovarvi poi davanti tutt’altra figura? A me è successo. Tempo fa mi parlavano di Carlo Pace.
E nella mia testa l’immagine di un uomo alto e corpulento. Con la barba, le mani grosse e tozze e gli occhi chiari, vispi. Mi sono sbagliata su tutto. Quasi tutto. Perché gli occhi che mi immaginavo erano uguali a quelli reali. Che caldo faceva quel giorno. Insopportabile. Nemmeno l’aria condizionata della macchina sembrava dare tregua.
Suoniamo il campanello. Il portone di un vecchio palazzo nel centro di Alessandria ci viene aperto. Spicca una polo viola. Davanti a noi il pittore. Ci stringe la mano. Lo seguiamo. Al piano terra del palazzo lo studio, piccolo, sembra creato su misura per lui. Salta subito all’occhio un divano leopardato che un poco stona con i colori delle sue opere. Al primo impatto l’odore dei colori è forte, ti penetra nelle narici. Poi dopo qualche minuto non te ne accorgi più neanche. Ti abitui e sembra quasi piacerti.
Da una piccola radio proviene della musica di sottofondo. Molti quadri sono poggiati per terra, alcuni appena terminati. Mi dispiace vedere quelle tele sul pavimento. Ma di spazio intorno libero ce n’è ben poco. I nuovi colori, il nuovo esperimento di Carlo Pace si chiama graniglia di carta vetro. Sembrano dei quarzi, delle pietre preziose o solamente dello zucchero bianco, bianchissimo. “Mi chieda quello che vuole sapere” è stata la prima frase che Carlo Pace mi ha rivolto. Ma non so ancora perché, in quel momento mi sono sentita in soggezione. Ho chiesto di parlare a ruota libera.
“Quando ero ragazzo mio papà conosceva tutti i pittori di un tempo, quelli che contavano. Gli spazialisti. Sono nato nel periodo in cui si è sviluppata la corrente informale legato allo spazialismo. Ho frequentato lo studio di Fontana. E sono entrato subito nella mischia. Ritengo di essere sempre stato un contestatore. Mi piaceva andare al cinema a vedere i film di Marlon Brando”. Continua Pace, e ci svela quella che per lui è stata una fortuna “Ho avuto una fortuna nella vita: possedere l’incoscienza di non aver dietro le spalle una storia e degli insegnanti”.
Nel 1962, il suo periodo informale. “Il SEGNO è la cosa peculiare per il mio lavoro. La mia è stata una figurazione molto personale per circa dieci anni. Ma non sono stato capito. Tante volte mi sono sentito un pesce fuor d’acqua”.
Nel 1972-1973 il desiderio di ricerca “Ho svolto un’indagine su Lucio Fontana. Pollock è un grande. Fontana ha distrutto tutto. La pittura dopo Fontana era finita”.
Lucio Fontana: mi sono documentata su questo artista per meglio comprendere anche Pace ed i suoi discorsi. Fontana, ovvero il fondatore del movimento spazialista. Da qualche parte ho letto «I pittori spazialisti non colorano la tela, non la dipingono, ma creano su di essa delle costruzioni che mostrano agli occhi del passante come, anche in campo puramente pittorico, esista la tridimensionalità. Lucio Fontana ha ideato i famosi tagli nella tela: tele monocromatiche nelle quali vengono praticate delle incisioni.»
Racconta Carlo Pace: “Nel 1973, la mia vita contro Fontana. Lui con (un) IL gesto aveva distrutto il quadro. Nell’esigenza di ridare una dimensione al quadro stesso”. Per me il senso non è lavorare per il quadro in se ma per continuare il discorso nella storia dell’arte”. Un anno importante per Pace è il 2000. “Nel 2000 nascono le cuciture. Spine dorsali di filo”.
Ma cos’è la pittura si chiede Pace? Che al tempo stesso si risponde: “Uno si alza la mattina. E’ contento, prende la sua tela e inizia a disegnare il paesaggio. Io la mattina mi alzo sempre incazzato. E non posso mettermi li a dipingere il paesaggio e l’alberello. Di quadri così potrei crearne 10 al giorno. Considero ormai finita la pittura ad olio”. Ma un bel giorno Pace ritrova un pezzo fatto su carta vetro nel 1970. E lo riprende. “La carta vetro è la faccia, la pelle del quadro. La nuova pelle. Pittura identificata alla persona fisica. Dove il colore è parte della pittura e del quadro. Un modo di lavorare fondamentale per me quello con la carta vetro. Mai usata da nessuno. Un’innovazione importante. Ora ho trovato, oltre alla carta vetro classica una carta vetro da ricreare sulla tela. Sono tutte esperienze. Anche se ho sempre ripensamenti quando mi addormento pensando alle mie tele. Mi piace passare vicino ai miei quadri, ruvidi. Sono del parere che un po’ di fortuna poi ci vuole nella vita. E capita se trovi l’elemento giusto”.
La GRANA con cui viene fatta la carta vetro si trova in tutti i colori. A noi colpisce quella bianca. Candida. “La musica mi piace. Non a caso i FONEMI sono tutti un discorso musicale”. E continua “Ho tante idee in testa. Tante. Disegno anche bene” e ci mostra disegni creati con la china, bellissimi, del 1953, che Pace definisce “Elogio al bel segno. Alcuni artisti fanno sempre lo stesso segno. Io credo di modificarlo”.
Il 1977 è l’anno delle anatomie. Nella sua lunga carriera Carlo Pace ha utilizzato davvero qualsiasi materiale possibile per realizzare le sue opere. Anche la lavanda vaginale “Che brucia il foglio. O la carta assorbente nel 1979 con lo smalto: il suo odore non passa mai. Del 1992 lo smalto su cartoncino. Ho usato di tutto. Qualsiasi cosa”. Poi, con sguardo vivace ed un ghigno sornione aggiunge “L’unica cosa che non ho fatto sai cos’è stata? Cercare di farmi un nome. Una notorietà. Me ne sbattevo. Come adesso”.
A breve sarà allestita una mostra antologica con le opere di Pace ad Alessandria, con monografia, al palazzo della Regione. Successivamente i quadri di Pace saranno i protagonisti di una mostra a Milano. Qualcosa in programma anche a Vercelli, ma per ora top secret.
Entriamo poi nel bunker, una stanza dall’altro lato del cortile, sorvegliata da un guardiano particolare, un manichino in legno. Ad accoglierci la tela intitolata “Occhio del quadro”. Poi tante spine dorsali , carta vetro dura, nero che predomina, nero tutto nero. Quello degli anni 70 è stato un periodo nero. E quando si parla di periodo nero, il nero è veramente nero, non c’è luce o spazio per nessun altro colore. “Ho usato anche l’olio da macchina bruciato. L’ennesimo di una serie di esperimenti che si sono ripetuti uno dopo l’altro. Poi la carta crespa, a formare una figura a soffietto. Nel decennio che va dal 1962 al 1972 ho creato delle figure che, a guardarle, possono esser sia maschi che femmine. Sono figure, e colori, a tinte forti. Pensare che all’epoca ne ho venduti tanti ed alcuni sono stati posizionati nelle camere dei bambini. Anche se non erano nati con quello scopo. A pensarci” dice ridendo “potrei affermare di aver creato i viados prima del tempo”.Alza lo sguardo Carlo Pace. Ruota la testa a destra e sinistra. Osserva le pareti, si guarda intorno: “”Qui dentro c’è tutta la mia vita”