di Carlo Pesce
Lo studio di Carlo Pace si trova nel centro storico di Alessandria. C’è silenzio nel cortile sul quale si affaccia la porta del suo laboratorio. Due stanze che odorano di solvente, centinaia di quadri variamente datati, dagli anni Cinquanta a oggi. Sul tavolo un lavoro in divenire. Appoggiati alla spalliera del divano altre due opere concluse da poco. Dalla radio escono le note di una canzone napoletana.
Ti giri intorno e guardi l’accumularsi dell’esperienza pittorica di uno sperimentatore, la rappresentazione dell’inquietudine di un uomo che ha costruito con ii suo lavoro di artista la propria esistenza. Carlo Pace racconta di come nascono certe sue intuizioni, afferma che talvolta lo sorprendono mentre sta per addormentarsi, e lui le segue fino a afferrarle e a trasformarle in quello che vediamo, in opere che per la complessità del gesto creativo sarebbe limitativo definirle solo “pitture”. Per questo l’evoluzione del discorso artistico di Pace è fatta di accelerazioni improvvise, di trasformazioni repentine che talvolta sorprendono. Eppure, ogni volta che comincia a definirsi una nuova serie di lavori c’è sempre un collegamento con qualcosa che lo ha preceduto, si intuisce sempre un riferimento a un momento più o meno preciso del percorso culturale di Carlo Pace. Nulla è casuale,scavando appena ecco affiorare la radice cui si attacca il ramo della nuova idea. Carlo Pace ha parecchi anni di esperienza aile spalle, ha conosciuto critici e artisti che gli hanno parlato e hanno posto i presupposti di quella che tranquillamente potrebbe essere definita una “maniera”. Egli si avvale di una notevole forza che gli ha permesso di cambiare, di mettersi sempre in discussione, in modo da poter essere sempre aggiornato, con la sua capacità di osservare come si muoveva – e si muove – il mondo dell’arte.
Ciô che si è determinato è un qualcosa di particolarmente intenso, di vigoroso, costruito sul piano di una continuità formale che in ben pochi della sua generazione hanno saputo mantenere.
Negli anni Settanta Carlo Pace realizzò una serie di piccoli lavori, delle tavole quadrate di quaranta centimetri di lato. La struttura di quasi tutti quei manufatti presentava una sezione centrale ricavata attraverso l’incisione del legno con sgorbie. Ciò che si determinava era uno spazio liquido, dai limiti non regolari, trattenuto da bordi levigati che limitavano l’espandersi dinamico della struttura più interna. I pigmenti che si stendevano a coprire la superficie di ogni singola “formella” variavano, dal grigio antracite al giallo squillante, a volte mischiati, a volte drammaticamente solitari. Ma l’azione del pittore non si limitava soltanto alla stesura del pigmento, spesso unito a collanti che ispessivano la materia rendendola durissima, simile a un’ambra perlacea; egli concludeva l’operazione grattando la superficie con un foglio di carta vetrata, asportando e ridistribuendo i colori per creare un effetto particolare, un effetto atmosferico di erosione.
La serie di opere, percepite in rapida sequenza, dimostra la bontà di un’operazione che mischia gesti che appartengono alla scultura – l’utilizzo di una sgorbia e la piallatura con la carta a vetro – a esiti che non possono che essere considerati pittorici. L’artista si mette a completa disposizione dell’arte, accetta la sflda con un materiale che lo costringe a compiere un’operazione di trasformazione che gli permette di contenere la forza dirompente della pittura accettandone i limiti. Ciô che si determina è una visione primordiale, un tuffo nel liquido amniotico che costringe l’osservatore a fare i conti con la sua origine di essere vivente. È, in fondo, una percezione degli imzi della propria esistenza, il ricordo di quel viaggio finalizzato alla costruzione dell’anima del quale restano pochi frammenti cristallizzati nella memoria di ogni pensante. Pace ci invita a osservare delle forme che esplodono di fronte ai nostri occhi non ancora abituati a percepire la realtà, quella realtà che si manifesterà in tutta la sua crudezza nel momento in cui, abituati alla semioscurità trasparente del ventre matemo, avremo la percezione della luce esterna.
Tutti i lavori realizzati a partire dal tardo autunno del 2007, pur collocandosi in diretta continuazione con le recenti cuciture policrome, sembrano derivare in modo più marcato da quei piccoli manufatti realizzati negli anni Settanta. Perô, considerare solo le “formelle” ’70 quali unici riferimenti a questi lavori si commetterebbe un grave errore. In effetti, la centralità dell’elemento su cui si imposta l’atto creativo riporta anche alla realizzazione delle “Spine dorsali” – forse la fase artistica più importante di Carlo Pace -, molle di queste create negli anni Settanta, straordinarie costruzioni archeologiche, strutture che affiorano dalle nebbie d un passato lontanissimo come elementi fossilizzati di vite organiche precedenti. Le spine dorsali trasmettono inquietudine, sono scheletri che emergono in uno spazio pieno di cattiveria e di sporcizia, uno spazio che tende a contaminare, inquietare anche la purezza dell’assoluto.
Ora, al reade made catramoso di quegli anni si è sostituita una più “raffinata” ricerca di oggetti, privi di valore che Egli nobilita facendoli diventare oggetto di rappresentazione artistica e, in quanto tali, risultano essere il senso stesso della rappresentazione. Essi, esposti al centro di una tela come se fossero monili preziosi, si trasformano in parte di un’opera d’arte, diventando qualcosa di ben diverso da ciò che sono realmente. C’è molta rabbia in questi lavori, s’intravede una forte critica del consumismo verso cui ci siamo diretti, Non è un caso che gli sfondi delle opere che costituiscono questa fase della ricerca di Carlo Pace siano tristemente scuri, talvolta drammaticamente macchiati da plumbee, pesantissime gocce di pasta metallica, talvolta occupati da ampie stesure di cafta vetrata. Questo materiale, cosI difficile,così poco duttile, è diventato l’epidermide su cui Pace ha costruito i suoi ultimi lavori. Dapprima la carta vetrata aveva un utiiizzo limitato, serviva all’artista per grattare le superfici, per ridurre a altro le campiture di colore che supportavano le sue silenziose costruzioni artistiche. Adesso anche questo materiale, un tempo a esclusivo servizio del completamento del lavoro, assurge a una dignità superiore sostituendosi ai tradizionali sfondi dipinti. Pace inventa una “poetica” della carta vetrata. Per l’autore è decisamente più affascinante questo materiale, quindi il supporto, piuttosto che ciò che si distende sulla superficie. Per questo sia le strisce di smalto fatte colare da un punto facilmente individuabile sulla superficie della carta vetrata, sia qualsiasi altro elemento appoggiato o saldamente attaccato a essa, sono da interpretare solamente come dei dettagli, come dei momenti di sperimentazione che servano a percepire un effetto. Pace sembra chiedersi in continuazione che cosa può accadere quando si deposita uno stesso pigmento su una superficie diversamente trattata. Egli agisce violentemente sul supporto, graffiandolo, scavandolo, cercando l’eliminazione di uno strato per sostituirlo con un simulacro cromatico. L’effetto è terribile nella sua forza dinamica, si assiste all’affermazione sulla scena di un protagonista di “secondo piano” al quale spettava un più banale e oscuro compito caratterizzante. È il supporto, che trionfa nella sua ruvida bellezza, nella sua tattilità incontenibile, nella sua trasparenza minerale. L’artista crea contemporaneamente sinopia e affresco, un modo per cogliere la realtà del mondo che supera il più tradizionale meccanismo ottico della percezione. Pace cattura la visione di un’emozione, cattura l’immagine di una vita vissuta nella convinzione che l’infinito è ora.