Pace seleziona, nel folto del polilinguismo attuale gil elementi grammaticali e lessicali atti a mettere a punto, con aggressiva lucidità, la raggiunta sensibilizzazione del linguaggio plastico. La necessità di tagliare, di bucare, di bruciare, ubbidisce al desiderio di rompere definitivamente il piano del quadro, come se la materia portata al limite ultimo della rarefazione volesse recuperare attraverso quell’incidente penoso il senso più autentico ed abbrividente della propria verità di esistere. Il taglio riportato alla sua natura simbolica di graffito, di abrasione incisiva e profonda ormai intaccata dalla voracità del tempo, non perde la sua capacità, come avveniva anche per Fontana, di mettere in comunicazione le superfici con una spazialitá sottostante profonda ed imperscrutabile. Non delineandosi quindi come tesi o manifestazione di una pensata violenza o accesa passionalità, essi non raggiungono, e non vogliono raggiungere, la tensione scottante ed ulcerante delle plastiche “ferite” di Burri.
Carlo Pace è uno di quei rari artisti che oggi sanno trovare il coraggio per interrogarsi e per indagarsi e poi magari per confessare umilmente la propria impotenza a trovare risposte o soluzioni plausibli a definire e a realizzare il proprio ruolo umano e professionale in una situazione di totale crisi di valori. Nato artisticamente durante “l’esplosione” informale, anzi i primi contatti furono con gli “spaziali”, spinse profondamente le proprie radici esistenziali entro quel ricco tessuto culturale, come ampiamente dimostrano le opere del ’52, matrici di struggenti e perturbate materie “autre”. Negli anni 60 le sue ricerche varcarono i “limiti”, se poi ci furono, dell’Informel e con una giustificata operazione chirurgica procedette nella direzione di una rinnovata attenzione per l’immagine, fino a ricreare contenute declinazioni neo-figurative che puntavano amorevolmente l’occhio verso gli stilemi freddi e raffinati dell’arte klimtiana. Questa aspra lettura del “modernismo” avvenne comunque in un clima di sottile penetrazione intellettuale che si annodava a quella corrente di muta energia fisica sottolineante il primo corrompersi nel tempo delle cose ormai chiuse in un’invalicabile solitudine. Questo si rivelò tuttavia un baluardo a lungo andare oggettivamente poco difendibile, e da lasciare quindi a cuor leggero nelle mani del nemico. Se è vero che la vita di ogni artista, come d’altra parte di ogni uomo, è un continuo susseguirsi di flussi e di riflussi, di fughe e di ritorni, è anche vero che ognuno tende a ritrovare le radici prime e più profonde del proprio essere. Pace, in questi ultimi tempi ha recuperato con fatica, ma inequivocabilmente, le ragioni più profonde, intime e dolenti del proprio lavoro. Non stentiamo a riconoscere in questo colpo sicuro al timone della barca, che torna nella direzione di trasposizioni sensorialmente esistenziali in cui affiorano netti i germi di una nuova vitalità, il segno acuto di una stimolante, problematica…