di Gianni Baretta
Nella tarda primavera e inizio estate del 1980, sotto la attenta e amicale supervisione di Pietro Villa, ricca di consigli e primi rudimenti, con Carlo Pace iniziammo le nostre esperienze calcografiche. L’esempio di un maestro come Villa che sapeva condurre articolatissime partiture di segni per i suoi paesaggi e composizioni floreali, ci aveva molto stimolato ma, rispetto alle sue esperienze, avevamo però ben chiaro il proposito di applicare le conoscenze tecniche che venivamo ad apprendere, alle nostre poetiche di artisti che inseguivano le immagini astratte, le ricerche sul colore e soprattutto sul segno.
Da subito, Carletto, con la naturalezza degli artisti che erano abituati a sperimentare senza sosta e, in ogni caso, a mettere in gioco nuove idee e captare le possibilità espressive di materiali, strumenti e metodi per fare pittura, trasformò le prime lastre sulle quali iniziava ad incidere in una palestra di irrituali e sorprendenti scavi sul metallo. Esempio eclatante è stato l’utilizzo, non sporadico, del disco smerigliatore per produrre segni a puntesecca e abrasioni forti e dal carattere nervoso. Un’altra tipologia di intervento da lui subito attuata è stata la scelta, di certo mutuata dalla parallela azione in pittura, sui cartoni ondulati da imballo, di “tagliuzzare” gli angoli delle lastre per rompere la staticità del perimetro quadratico-rettangolare.
Dopo le prime 2 o 3 matrici regalateci da Villa,decidemmo di comprare, in un magazzino di metalli, una certa quantità di rame, ma soprattutto di zinco, a peso, che poi tagliammo in lastre quadrate di 20 cm. e ulteriori tagli dimezzatori; le stesse lastre che costituiscono il nucleo pressoché totale delle sue incisioni iniziali e che rimane tutt’ora un unicum importante quanto fortemente vitale. Le superfici di queste matrici erano spesso solcate da graffi e segni non voluti ma questi “incidenti del caso” erano molto graditi a Pace che prediligeva sempre partire da qualche situazione “vissuta” piuttosto che da superfici dall’aspetto asettico e specchiante. Ci eravamo dotati di due tipi di acido nitrico, uno a medio-bassa concentrazione che permetteva di fare morsure più lente e meditate, il secondo a più forte concentrazione e ad azione veloce era quello da lui prediletto in quanto consentiva di ottenere scavi larghi, profondi e un poco slabbrati che bene si addicevano alla tipologia di segno che in parallelo andava sviluppando in pittura. Davvero esemplare è la continuità stilistica delle prove calcografiche del 1980 con tutto il lavoro dipinto che Pace andava conducendo e che era rivolto soprattutto ad indagare il segno dell’inchiostro di china rapportato alle superfici delle carte assorbenti trattate con ogni pensabile mezzo pittorico o extrapittorico. Siamo del resto alle porte della intensa stagione dei “fonemi” che è conseguenza evolutiva di quell’“elogio al segno” , momenti questi della sua storia, di cui ben altre competenze critiche sapranno trattare in prossime occasioni di studio sull’artista alessandrino.
Ma per tornare alla calcografia, ricordo bene il fibrillante “rito” della morsura delle lastre cerate nel cortile di via Tiziano e la profonda soddisfazione di Carletto, del tutto simile a quella di un bambino che scopre un nuovo gioco, nell’osservare le bolle dell’acido nitrico che agiva sul metallo e il baluginare vivido dello zinco a nudo sotto l’azione della corrosione. Pace in particolare era poi molto attirato dalla morsura aperta, tecnica molto libera e poco canonica che prevedeva di lasciare il metallo totalmente scoperto in balìa dell’acido per cui la superficie poi ottenuta aveva caratteristiche di una anomala acquatinta “sporca” che in fase di inchiostrazione e stampa avrebbe reso tonalità e situazioni cromatiche che bene si attagliavano all’idea di pittura del nostro artista.
Altrettanto indimenticabili sono state le emozioni nel vedere uscire i fogli di carta umida dall’azione pressoria del torchio di Villa e le considerazioni e le reciproche analisi sui risultati di stampa e ancora la condivisione della certezza di trovarsi davanti ad un mondo che ci si apriva con infinite e stimolanti possibilità di azione.
Dopo questa prima stagione libera, effervescente e ricca di entusiasmi vitali, ed è quella maggiormente documentata in questa piccola mostra del Gabinetto delle Stampe, Pace ha proseguito, ma di questa ulteriore avventura non sono più stato testimone diretto, con intensa esecutività in direzione di una forma di “scrittura fonematica” in cui il gesto-segno dei pennini, delle punte e dei raschietti assumeva aspetti dalle prevalenti caratteristiche lirico-ideogrammatiche. Di sicuro questa parte della produzione acquafortistica si è attestata su una posizione più standardizzata e di ripetitività un poco ossessiva, sicuramente trainata dal coevo grande ciclo dei fonemi pittorici, ma che rimane in contrasto un po’ penalizzante con il piglio inventivo e “guascone” della prima fase.
Se Pace non avesse avuto “il tarlo” della curiosità su tutto e verso tutto, quindi su qualsiasi cosa nuova e sperimentabile, e se avesse continuato ad indagare con maggiore metodicità e da par suo, in quel campo ristretto e non facile che é il mondo della calcografia, di sicuro avremmo avuto ulteriori prove ancora di eccelsa qualità inventiva.