Dal catalogo della mostra “Amnesia” (Alessandria) del 1985

di Dino Molinari

L’avventura di Pace è vissuta all’interno della propria vicenda personale, portando costantemente i segni di una fatica e di una soggettiva compromissione. Nonostante le digressioni, le varianti, le sperimentazioni policentriche, rientra sempre, nel perimetro di se stesso e la sua storia non è che un unico viaggio intorno alla propria stanza, un’esperienza totalmente cresciuta dal di dentro.

La misura di Pace coincide con la propria rarefazione-, per cui non sembri arbitrario porla nell’ottica della parabola del “soffiatore di vetro”, al quale Goffried Benn affida l’immagine-simbolo dell’artista creatore dell’effimero e dell’inesistente. Il soffiatore di vetro è il plasmatore di forme suscitate dal nulla, toccate dalla perfezione della propria inconsistenza. Per questa condizione Goffried Benn ne fa un valore assoluto, emblema della vita stessa che non ha senso e che non ha neppure esistenza, in una realtà che mostra i segni della disgregazione e della rovina.-” Il fluido incandescente del vetro e quindi  il colpo di cannula, un respiro- e poi le fragili pareti, avvolte solo da una trama d’ombra e luce. Forse che tutto non è altro che suono su cui, giocando, andiamo in cerca di dei? “…Tu ti ritrai fra le ombre, ma qualcosa di te rimarrà ancora. E se anche nel tuo caso non si tratta che di vasi e di vetri che il  tuo soffio distacca, non dei profondi rilievi e delle fughe di figure, se anche nel tuo caso si tratta solo di pezzi fragili, pure soffermati anche tu nel paese in cui ti traggono i tuoi fragili sogni e in cui tu esisti per portare a perfezione, in silenzio, le  cose che ti sono state affidate”

DINO MOLINARI

Prefazione del catalogo della Biennale di Mentone del febbraio 1974

PaceIMG_7408 seleziona, nel folto del polilinguismo attuale gil elementi grammaticali e lessicali atti a mettere a punto, con aggressiva lucidità, la raggiunta sensibilizzazione del linguaggio plastico. La necessità di tagliare, di bucare, di bruciare, ubbidisce al desiderio di rompere definitivamente il piano del quadro, come se la materia portata al limite ultimo della rarefazione volesse recuperare attraverso quell’incidente penoso il senso più autentico ed abbrividente della propria verità di esistere. Il taglio riportato alla sua natura simbolica di graffito, di abrasione incisiva e profonda ormai intaccata dalla voracità del tempo, non perde la sua capacità, come avveniva anche per Fontana, di mettere in comunicazione le superfici con una spazialitá sottostante profonda ed imperscrutabile. Non delineandosi quindi come tesi o manifestazione di una pensata violenza o accesa passionalità, essi non raggiungono, e non vogliono raggiungere, la tensione scottante ed ulcerante delle plastiche “ferite” di Burri.

Carlo Pace è uno di quei rari artisti che oggi sanno trovare il coraggio per interrogarsi e per indagarsi e poi magari per confessare umilmente la propria impotenza a trovare risposte o soluzioni plausibli a definire e a realizzare il proprio ruolo umano e professionale in una situazione di totale crisi di valori. Nato artisticamente durante “l’esplosione” informale, anzi i primi contatti furono con gli “spaziali”, spinse profondamente le proprie radici esistenziali entro quel ricco tessuto culturale, come ampiamente dimostrano le opere del ’52, matrici di struggenti e perturbate materie “autre”. Negli anni 60 le sue ricerche varcarono i “limiti”, se poi ci furono, dell’Informel e con una giustificata operazione chirurgica procedette nella direzione di una rinnovata attenzione per l’immagine, fino a ricreare contenute declinazioni neo-figurative che puntavano amorevolmente l’occhio verso gli stilemi freddi e raffinati dell’arte klimtiana. Questa aspra lettura del “modernismo” avvenne comunque in un clima di sottile penetrazione intellettuale che si annodava a quella corrente di muta energia fisica sottolineante il primo corrompersi nel tempo delle cose ormai chiuse in un’invalicabile solitudine. Questo si rivelò tuttavia un baluardo a lungo andare oggettivamente poco difendibile, e da lasciare quindi a cuor leggero nelle mani del nemico. Se è vero che la vita di ogni artista, come d’altra parte di ogni uomo, è un continuo susseguirsi di flussi e di riflussi, di fughe e di ritorni, è anche vero che ognuno tende a ritrovare le radici prime e più profonde del proprio essere. Pace, in questi ultimi tempi ha recuperato con fatica, ma inequivocabilmente, le ragioni più profonde, intime e dolenti del proprio lavoro. Non stentiamo a riconoscere in questo colpo sicuro al timone della barca, che torna nella direzione di trasposizioni sensorialmente esistenziali in cui affiorano netti i germi di una nuova vitalità, il segno acuto di una stimolante, problematica…

Biennale di Mentone 1974

Recensione della mostra a “Il salotto” a Como 1973

di Mario Radice

Nonostante abbia superato i trent’anni questa è una delle prime personali di Carlo Pace: una rarità, dunque, perchè oggi i suoi coetanei hanno allestito decine di mostre personali ed hanno partecipato a centinaia di esposizioni di gruppo. Molti artisti (forse meglio sarebbe dire pseudo-artisti) pare lavorino soltanto quattro o cinque ore alla settimana. Il resto del loro tempo lo trascorrono correndo in auto da una galleria all’altra, visitando tipografi,calcografi, critici  d’arte, clienti. Forse anche per IMG_7407questo motivo le opere d’arte sono rare e vediamo nelle trecento gallerie di  Milano quasi sempre opere buttate giù con gran fretta, superficiali,inutili e forse dannose. Perchè accade oggi questo fenomeno? Credo che il fenomeno sia dovuto soprattutto al fatto che soltanto in questi anni  è giunta a conoscenza della “massa” la pittura impressionistica e post-impressinistica ” fin de siècle”.  E’ la prima volta in vita mia che scrivo la parola “massa”, vocabolo che detesto perchè facciamo parte di un popolo, non di una massa. L’ho usata per tentare di essere capito meglio dal paziente lettore. Tornando a Carlo Pace, le sue opere anzitutto hanno buon gusto, poi accordi cromatici  bene azzeccati, a volte ottimi, infine il lodevole tentativo, coronato da successo, di comporre in maniera equilibrata e gradevole. Mi pare che  le opere più significative siano quelle con composizioni più ampie e semplici. Un altro carattere o meglio pregio, delle opere esposte è la cosidetta ambiguità o ambivalenza di genere (tanto di moda oggi). Le figure umane si vedono e non si vedono nel groviglio dei colori e delle forme che, oltre tutto hanno sapore “liberty”. In  conclusione, questa mostra è gradevole e meritevole.

MARIO RADICE

Dove va la pittura verso gli Anni Ottanta

COPERTINA-GALA-1974L’uscita in Italia, nel 1962, del testo di Arnheim “Arte e percezione visiva”, che analizza lucidamente come e quando problemi della percezione si identificano con quelli della psicologia della forma, ha dato senza dubbio una violenta spallata alle filosofie dello “sturm-unddrang”. Il quadro o l’oggetto, quando non lo si guardi forzatamente come segno di conservazione, non intende più porsi come “rappresentazione”, ma se mai come ipotesi mentale o progettuale, che si sviluppi in più direzioni, acquistando a capacità di darsi come operazione didattico-conoscitiva in continuo divenire, che deve essere letta sia come stimolo percettivo che come indicazione concettuale. Gli artisti che oggi sembrano aver scelto la strada più difficile ma anche la più produttiva sono senza dubbio quelli che a piccoli gruppi, o isolati, portano avanti puntigliosamente una ricerca, non dimentica delle proprie radici e dei propri padri, che va verso l’elaborazione di elementi segnico-cromatici-progettuali che possono costituirsi a linguaggio alternativo e perciò in grado di mettere in crisi quegli schemi mentali su cui si basa la tipica cultura borghese che vede neIl’arte soprattutto uno strumento mercantile.

Dopo gli anni settanta, un gruppo di artisti omogenei non esiste. Si possono individuare  due  linee:

1) della “nuova astrazione”- non la chiamiamo “nuova pittura” perchè oggi di pittura  non ce n’è affatto. Questa linea comprende posizioni di ricerca differenti ma affini: V. Vago, C. Verna, M. Gastini, G. Griffa, C. Olivieri, Bonalumi, R. Guarneri, C. Battaglia, ci testimoniano un lavoro serio sulla dimensione  psichica e fisica  del colore, lavoro tipico di un’area italiana classica e artigiana.

2) Un’altra linea “per domani” va individuata in quel gruppo di artisti che, con intenti e scopi diversi, intendono ricercare spazi operativi autonomi che, pur tenendo  conto di analisi  già storicizzate, privilegiano canali di comunicazione non usurati, cercando una scrittura intenzionata come itinerario psicologico e come valore di coscienza: C. Cioni, S. Sermidi, N. Varale, S. Bonelli, L. Schiozzi, G. Ortelli, G. Gorza, F. Bruzzone, Carlo Pace.

Carlo Pace sulle “carte assorbenti” opera una decomposizione del segno  personalissima, tendendo verso una gestualità di tipo “mentale”. Per questo gruppo di operatori il quadro o l’opera diventano “pensiero”, infatti la graficità oggettiva, che non si avvicina mai alla ricerca scientifica, sollecitando il fruitore, mette in moto un meccanismo di ri-creazione che per rimandi riconduce ad un preesistente  universo in cui la simbolizzazione è solo una ricerca di spazio e tempo, di segno e misura utopica.

MARISA VESCOVO
DA GALA INTERNATIONAL (1974)

CARLO PACE: “uno sperimentatore”

 

di Carlo Pesce

Carlo Pace è prima di tutto uno sperimentatore: negli anni Cinquanta, anni in cui ha cominciato a lavorare nel mondo dell’ arte,egli, sempre seguendo e coltivando la propria evoluzione astratto/materica, ha cercato di osservare le cose da vari punti di vista, traendo dagli oggetti l’ essenza ideale che permetteva loro nobilizzazione. In questo modo si è affermata una personalità di artista sempre più curiosa e esigente che è approdata naturalmente a affrontare una fruttuosa ricerca nell’ utilizzo della carta vetrata.La risposta coi suoi lavori ha poi dimostrato un sempre più evidente raffinamento formale, un raffinamento cercato all’ interno di materiali grezzi, contorti, valorizzati in un contesto privo di grazia spirituale, secondo una precisa intenzione di aprire la strada a un gusto che intende andar sotto la cute estetica per tentare di scoprire l’ ineffabile profondità dell’ esistere.

La carta vetrata ha assunto un preciso valore simbolico e può essere letta come  una “pelle” che fa affiorare l’ amaro dell’ esistenza, che si tinge di colature vivaci che sembrano evocare gli umori della vita. In quest’ ottica, la carta vetrata cessa di essere esclusivamente un supporto pittorico, ma si trasforma nell’ ennesimo pigmento, nel materiale con il quale Carlo Pace ha stabilito un rapporto costruttivo capace di trasformarlo in un mezzo potentemente evocativo. La carta vetrata diventa espressione di un modo di essere, diventa materia primordiale sulla quale si inserisce l’ impronta dell’ esistenza. Si può addirittura pensare che l’ autore abbia inseguito per anni una propria sensazione e che essa abbia prJ2153x2512-07762aeso corpo proprio -e solo- con questa materia che, per queste sue caratteristiche simboliche, si carica di una fortissima valenza vitale. Trovato il  “bandolo della matassa”, cioè compresa la drammatica poetica della carta vetrata, l’ azione del pittore è allora diventata via via più sicura e convinta. Durante la fase costruttiva dell’ opera d’ arte, il foglio di carta vetrata prodotto industrialmente è ridotto a porzioni geometriche di dimensioni e colori differenti. Esse sottoposte all’ azione pittorica, subiscono tali processi di trasformazione, che al compimento del lavoro contribuiscono a stravolgere completamente l’ assetto formale del quadro. Quest’ ultimo si presenta estremamente materico, aggettante dalla superficie, in grado di imporre una nuova debordante tridimensionalità. Inoltre, l’ elemento “quadro” è spesso arricchito da alcuni oggetti che tendono a conglobarsi ai granuli della carta vetrata, trasformando in “scultura” la piatta bidimensionalità dell’ opera conclusa. Carlo Pace ha così impresso un’ accelerazione carica di di forza alla ricchezza epidermica ella carta vetrata. Sulla superficie graffiante del foglio allo stato puro è stato costruito un apparato carico di dinamismo con delle colature apparentemente casuali.

Esse sono gettate sulla superficie in modo da ottenere un reticolo vascolare che completa l’ essenza organica di un materiale che l’ autore considera a tutti gli effetti proprio e carico do vitalità. La sensazione è quella di trovarsi di fronte un affannato movimento che deve essere portato a termine. Infine c’ è da sottolineare che, ancora una volta, nell’ estetica di Carlo Pace prevale quel gusto “affiorante” che aveva caratterizzato la fase delle “spine dorsali”, uno dei momenti più felici della carriera di questo pittore. Infatti l’ oggetto che si trova immerso nella rappresentazione pittorica, pare (ri)emergere al centro del quadro per naturali cause meccaniche che lo (ri)portano alla luce, scarnificato e depauperato di tutti gli elementi deteriorabili. La percezione che si ha di queste ultime opere di Pace è paragonabile a quella di polverosi catrami che lasciano affiorare inquietanti “ossature” di un’ umanità annientata e annichilita. In questa fase artistica a mostrarsi sono soltanto gli oggetti, animati da dinamismi cromatici di enorme impatto emotivo; si assiste alla rappresentazione di un dramma collettivo dal quale difficilmente sarà possibile uscire.

Carlo Pace si comporta come un antico demiurgo e adopera lo stesso espediente della Natura: colora le sue creature  per attirare gli sguardi  e una volta catturata l’ attenzione dell’ osservatore induce alla riflessione, facendo capire tutta l’ amarezza dell’ esistere.